Senza profitto – Lc 17,7-10
In quel tempo, Gesù disse:
«Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, strìngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
«Cosa ci guadagno?». Viviamo in una società talmente abituata al do-ut-des che questa sembra essere una domanda ovvia e scontata: per fare qualcosa è necessario che ci sia un guadagno.
Non è, in realtà, una teoria di questi tempi. Già fior fior di filosofi e psicologi avevano ipotizzato la teoria “omeostatica” delle motivazioni umani: una persona si mette in moto se questo movimento è controbilanciato da una qualche forma di ritorno, che riequilibra il sistema perturbato.
Per questo ci dà fastidio essere «unprofitable servants» (traduzione Conferenza Episcopale Inglese), servitori senza profitti. Appunto in-utili, senza utile. Se non c’è motivo perché darsi tanto da fare? Se non c’è ragione per aiutare gli altri, chi me lo fa fare?
Ma questa è esattamente la logica che la fede in Gesù vuole disinnescare: noi serviamo non perché ci guadagniamo qualcosa, ma perché è nel servizio stesso ai fratelli che la nostra vita trova senso. Non c’è una ricompensa a-posteriori, c’è, invece, un gusto buono all’interno del nostro agire.
Essere servi senza profitto è allora il segno della libertà del cristiano, il nucleo della nostra gioia. Siamo liberi: per questo, finalmente, possiamo servire i fratelli.