Trafficanti e alberi
Ci risiamo. Si parla con insistenza di chiudere nuovamente tutto.
Ci troviamo di fronte al dramma di non poter scegliere davvero. Chi potrebbe dire con certezza cosa sia meglio in questo momento? Chi offre le proprie soluzioni con semplicità e insistenza attraverso i vari schermi che abbiamo spesso tra le mani, offre risposte sbagliate o comunque molto parziali, perché di fronte alla complessità della vita non ci possono essere risposte semplici.
Ogni chiusura porta con sé l’idea di un fallimento, perché dettata dalla paura di non riuscire a controllare qualcosa. Anche a noi sta capitando questo: è inutile nasconderlo, abbiamo paura.
Non si tratta di reagire in maniera scomposta, anche la violenza ha quasi sempre la sua vera matrice nella paura, né di ritirarsi a vita privata nella speranza di aver accumulato abbastanza da poterla sfangare anche questa volta.
Si tratta di provare a dire con grande onestà cosa intendiamo quando utilizziamo il verbo “chiudere”.
Si tratta di capire molto bene se vogliamo intendere sospendere la vita per un tempo indefinito, ma comunque limitato, congelando spazi di crescita in attesa di tempi migliori, oppure se siamo capaci di immaginare qualcosa di diverso.
Al capitolo 25 del Vangelo di Matteo, come ascolteremo domenica, Gesù racconta la parabola di un uomo che, partendo per un lungo viaggio, affida i suoi beni sotto forma di talenti, moneta di valore inestimabile, ai suoi servi, secondo le capacità di ciascuno. Con questo gesto l’uomo sembra chiudere la partita: consegna tutto quello che ha e se ne va, di lui non sappiamo se farà ritorno.
Eppure attraverso quel gesto di consegna non si chiude semplicemente una fase della vita: assistiamo ad un gesto di affidamento, capace di mettere in moto un processo di responsabilizzazione dei servi che li porterà a prendere in mano la propria esistenza.
Assistiamo a qualcosa di sorprendente e inaspettato: senza alcuna indicazione particolare vediamo dei servi trasformarsi in trafficanti di talenti. Uomini che non si lasciano schiacciare dal peso della responsabilità e che, partendo da quello che hanno, si chiedono come farlo fruttare per il bene loro e per quello del loro padrone.
Non tutti però sono capaci di fare questo: c’è chi si lascia prendere dalla paura e inizia a scavare buche per sotterrare ciò che gli è stato affidato.
Nei prossimi giorni siamo tutti chiamati a capire se durante i tempi di chiusura che avremo davanti vogliamo iniziare a scavare buche o a fidarci ancora una volta di quello che la vita e attraverso di essa, Dio, continua a offrirci.
Abbiamo fatto tutti esperienza di quando una paura improvvisa e inaspettata ci assale e la reazione iniziale è quella di rimanere bloccati, quasi impietriti.
Peggio ancora quando la paura non è improvvisa, ma cresce lentamente nel nostro animo insinuandosi nelle pieghe nascoste delle nostre più ferme convinzioni: tutto viene messo in discussione, si finisce per non riconoscere più la realtà che abbiamo attorno per quello che è. Non vediamo cosa abbiamo tra le mani, non riconosciamo le occasioni che abbiamo a disposizione, finiamo per non riconoscere più la verità dell’altro e del suo volto.
Chiudersi affidandosi alla paura rischia di vanificare anche i possibili vantaggi generabili da eventuali chiusure: chiudere non vuol dire smettere di avere relazioni, magari vorrà dire smetterla di programmare, ma sicuramente non di progettare.
Essere fedeli al poco che abbiamo a disposizione in questo tempo e cercare di trafficarlo, magari anche in maniera clandestina, è l’antidoto principale ad ogni paura.
La parabola ci ricorda che a tutti viene affidato il Vangelo, secondo le nostre possibilità di accoglierlo e metterlo in pratica: a tutti viene offerta una parola che possa fare breccia nelle nostre paure. Tutti siamo autorizzati a frequentarla e a metterla in circolo come vero vaccino alla paura di vivere.
Tra tutte le chiusure di questi giorni, ce n’è una che mi colpisce particolarmente: quella della scuola. Attraverso l’indecoroso rimpallo di responsabilità e il continuo gioco dello scarica barile, spiacevole effetto collaterale di una società impaurita, stiamo mettendo a rischio la vita dei più fragili, si pensi agli anziani delle case di cura, ma anche quella dei più giovani. Scaricando su di loro le nostre paure rischiamo di abbandonarli a loro stessi, di affidarli esclusivamente alle loro capacità, dimenticandoci però di mettere a loro disposizione se non proprio un talento, almeno quattro soldi da provare a spendere.
La didattica a distanza non può e non deve trasformarsi in didattica della distanza: non si tratta di trasmettere contenuti, ma di continuare a trasmettere vicinanza e gusto per la vita. Non dimentichiamo l’uomo della parabola: consegnare qualcosa che riteniamo prezioso a qualcuno è il vero compito di una raggiunta maturità umana e direi anche cristiana. Se attraverso questa ennesima chiusura trasmetteremo solo paura e rassegnazione, senza provare ad essere ancora una volta trafficanti di speranza, avremo malamente eluso il nostro compito.
Prima di ogni altra cosa, scuola e università devono rimanere aperte come spazio mentale, come luogo di confronto possibile con adulti desiderosi di trasmettere il proprio bagaglio di talenti: tutti siamo chiamati a dare una mano agli insegnanti. Genitori, fratelli maggiori, nonni, educatori: gli stessi ragazzi debbono sentirsi responsabilmente coinvolti in questo processo e non solo destinatari di protocolli sempre e comunque decisi da altri.
Non rinunciamo a stare il più vicino possibile ai nostri bambini e ai nostri adolescenti: cerchiamo di non trasmettere l’idea che in questo momento l’unica cosa possibile e davvero remunerativa sia quella di scavare buche per poter mettere in salvo qualcosa.
Mi piace pensare che Carlo Collodi avesse in mente questa parabola quando pensò all’immagine di Pinocchio che scava una buca per seminare le sue tre monete d’oro: prima di perdere tutto e di abbandonarci alla paura, dovremmo ricordarci che le buche servono solo per piantare alberi da frutto e che ogni albero, per poter crescere, ha bisogno di tempo, cure e di qualcuno che gli stia vicino.