Libertà di parola

Libertà di parola

In questi giorni vediamo come l’assunto antico che proclama la politica come l’arte della parola e del compromesso sia messo in discussione da una crisi che lascia senza parole. Non tanto gli spettatori inermi – ma non per questo incolpevoli – che siamo tutti noi, quanto i soggetti dell’azione politica parlamentare, incapaci di usare parole vere che sappiano dare corpo alle tragiche istanze del paese.

Quando le parole non sono più il veicolo per trasmettere idee e sulle idee i volti e le storie concrete delle persone, difficilmente riescono a elaborare sintesi nuove che diano forma allo specifico dell’arte politica. La mediazione che la buona politica sa realizzare è sempre rivolta verso qualcuno,  lavora sulle parole sapendo che dalle parole seguiranno fatti che cambieranno la vita delle persone: se le parole si svuotano e diventano costante rappresentazione di un io egocentrico e strumenti di pura ricerca del consenso, il discorso politico da necessario strumento di precisione in mano al chirurgo, rischia di diventare arma di distrazione di massa a disposizione di pericolosi manipolatori.

Il problema è che tutti noi, oggi, usiamo molte parole a sproposito: pensiamo di utilizzarle per raggiungere gli altri e invece, spesso, diventano l’impalcatura che ci costruiamo per impedire che gli altri ci tocchino veramente. Crediamo di riuscire a utilizzare le parole che vogliamo per raccontare di noi solo quello che vogliamo, l’immagine bella e autorizzata di noi stessi, ma dentro a questi giri di parole perdiamo il contatto con la realtà. Essa non è mai fatta solo di noi e delle nostre percezioni e di tutto ciò che ci ruota attorno. Eppure le parole, quelle pronunciate con verità, dovrebbero servire proprio a farci abitare la realtà in maniera più umana e a riconoscere lo spazio che ogni altro-da-noi occupa in questa realtà.

Le parole servono a creare legami, a costruire sentieri di raccordo tra le persone, ma possono diventare inganno, chiusura, espressione vuota di un io che vuole parlare solo di sé.

In che modo possano essere utilizzate le parole ce lo descrive, in tre quadri, il Vangelo di Marco al capitolo primo (vv. 29-39), dove viene raccontata una giornata tipo di Gesù.

Dopo essere uscito dalla sinagoga, Gesù viene ospitato nella casa di Simone e Andrea e lì trova immediatamente qualcuno che gli parla della suocera di Simone che si trova a letto con la febbre. Quando le parole diventano tramite per evidenziare la situazione di dolore e sofferenza di qualcuno, diventano occasione di guarigione, porta di accesso all’azione di Dio che restituisce l’umanità alla dimensione propria del servizio. Se la vera politica è servizio, allora dobbiamo recuperare tutti il valore delle parole di intercessione, quelle parole che sanno dare voce a chi, per una ragione o l’altra, non ha più forza di parlare. Per i cristiani, poi, il tema della preghiera di intercessione dovrebbe essere costante materia di scavo, luogo privilegiato dove mettere alla prova il desiderio di incontrare Dio insieme e attraverso i fratelli.

Nel secondo quadro, dopo il tramonto del sole, l’evangelista Marco ci presenta Gesù che guarisce malattie e scaccia demoni: la cosa davvero interessante è l’annotazione finale che riguarda il fatto che Gesù non permette ai demoni di parlare perché lo conoscono. Gesù rifiuta le lusinghe di parole che lo riguardano e che potrebbero fare conoscere a tutti la sua identità, ma che porterebbero soltanto confusione e incomprensione diffusa sulla sua missione.

Ci sono parole che non vanno usate: le parole del male sono sempre attraenti, sembrano proporci verità profonde su noi stessi, ma generano soltanto confusione e ci allontanano dal giusto modo di rimanere in relazione con l’altro. Tutti subiamo il fascino di parole che possano descrivere le verità profonde del nostro essere, ma dobbiamo essere consapevoli del fatto che la nostra interiorità è materiale incandescente che dobbiamo imparare a custodire prima ancora di poterlo usare: ecco perché il Vangelo ci presenta spesso Gesù che si isola a pregare, ecco perché la dimensione del silenzio è così fondamentale nella vita spirituale e necessaria, se vogliamo recuperare a noi stessi il peso profondo delle parole.

Il terzo e ultimo quadro, dopo aver descritto la preghiera solitaria di Gesù, ci parla del suo rifiuto di assecondare la richiesta di mettersi a disposizione di coloro che lo cercano. Gesù guarisce e libera dagli spiriti impuri, ma ha la piena consapevolezza di essere affidato alla missione principale di portare la parola che salva. Prima di ogni azione, prima di ogni gesto, è la predicazione che conta. Gesù che è la Parola del Padre, è venuto a portare a tutti parole di speranza e vita. Sono le sue parole a sostenere l’intera sua missione e a permettere a ogni uomo e donna di buona volontà di moltiplicare all’infinito azioni di bene e gesti di guarigione. Dove arriva la parola buona del Vangelo si creano le condizioni per il cambiamento, un cambiamento fatto di gesti quotidiani e concreti, ma anche della creazione di contesti sociali nuovi inventati da politiche capaci di dare il giusto significato alle parole.

Forse con troppa ingenuità ci siamo accontentati di ridurre la funzione buona delle parole all’ambito della sfera privata, pensando che fosse sufficiente gestire con un po’ di verità i sentimenti e le relazioni più dirette, per avere una vita appagante entro cui decidere noi chi fare entrare oppure no. Abbiamo ridotto il Vangelo a manuale dei buoni sentimenti ad uso privato.

Ma “il re è nudo”: senza parole buone in circolo, senza la parola buona del Vangelo, la società diventa più povera e la politica diventa muta, ma anche dentro alle nostre abitazioni sembrano girare sempre più parole di circostanza e silenzi imbarazzati. Strano però: sembra che tutti vogliano dire la loro e che l’unico diritto riconosciuto sia quello di usare parole in libertà, ma la libertà di parola è un’altra cosa.

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