In ginocchio
L’immagine di una suora in ginocchio che, di spalle, sta davanti a un gruppo di soldati armati colpisce per la sua potenza e fa riflettere: nella tragica vicenda del Myanmar spunta il racconto straordinario di un gesto che ha fermato la violenza grazie alla sua visibilità. Suor Ann, dopo aver appreso delle proteste e delle violenze che si stavano perpetrando nella sua città – come nel resto del paese – nei confronti di inermi manifestanti, soprattutto giovani, non ha esitato a scendere in piazza armata dell’unico strumento a sua disposizione: il proprio corpo fatto preghiera.
Di fronte a questo gesto i soldati si sono fermati e, almeno per quel giorno e in quella città, non ci sono stati morti e feriti.
Nel Vangelo di Giovanni che ascolteremo nella quarta domenica di Quaresima (Gv 3,14-21), Gesù ci parla del fatto che il Figlio dell’uomo sarà innalzato perché chiunque creda in lui abbia la vita eterna: qui il riferimento è chiaramente alla croce, al fatto che da quel luogo sopraelevato di martirio e distruzione sarà reso manifesto tutto l’amore di Dio per gli uomini e sarà fatto in modo che da tutti possa essere visto. La croce verrà posta su un monte, ma, a pensarci bene, ogni croce è sempre posta in un luogo che la renda il più possibile visibile: l’amore, quello vero, ha bisogno di essere visto, o, meglio, quando è vero amore finisce sempre per essere visto e additato da qualcuno. Infatti, proseguendo nella lettura, scopriamo che il desiderio di Dio è di mandare il Figlio non per condannare il mondo, ma per salvarlo.
In che modo si manifesterà questo giudizio di Dio sul mondo? Tramite la potenza della croce e in ogni luogo e in ogni tempo, attraverso tutti quei gesti che si rifanno a essa. Ecco, allora, che tutti i gesti di amore e di consegna della vita in favore di qualcun altro diventano espressione visibile dell’amore di Dio e del suo desiderio di salvare e non di condannare.
Nel Vangelo di Giovanni ritorna con insistenza l’immagine della luce che viene nel mondo, ma si insiste anche sul fatto che gli uomini amano più le tenebre che la luce e per questo motivo continuano a fare opere malvagie. Si insiste poi sul fatto che chi fa il male odia la luce e preferisce tramare nell’oscurità per evitare che le sue opere vengano riprovate.
Quanti maneggi avvengono nell’oscurità, ma soprattutto, quante situazioni di male e violenza rimangono nascoste perché chi ne trae dei vantaggi possa continuare indisturbato a operare senza interruzione… Sappiamo molto bene che il male non ha bisogno di pubblicità e che, quando la cerca, è soltanto per creare le condizioni migliori per operare ancora a un livello più profondo, dove agire indisturbato.
Il bene, invece, si rende sempre manifesto nella sua semplicità, ma anche nella sua potenza. Non cerca pubblicità e risulta evidente per quello che vuole comunicare: la croce, dall’alto del monte, con il suo braccio orizzontale, parla del desiderio di Dio di abbracciare tutta la terra, ogni uomo, e, attraverso quello verticale, dice della possibilità di rimettere in collegamento il cielo e la terra. Ma è soprattutto la presenza di un corpo che offre tutto se stesso a parlare di un amore possibile, che diventa dono a disposizione di tutti. Così, attraverso la croce, per noi cristiani diventa possibile riconoscere ogni gesto di amore, perché ogni gesto che si esprime secondo il linguaggio del dono va verso la luce e diventa manifesto in tutto il suo splendore.
«Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio». Così si conclude il brano di questa domenica, una sorta di invito rivolto a tutti a riconoscere che il bene viene sempre da Dio, ma anche un invito a camminare verso la luce, a lasciarsi attrarre dalla semplicità di quei gesti che esprimono esattamente quello che lasciano intendere.
Una suora in ginocchio forse non cambierà le sorti di una vicenda molto più grande di lei, ma sicuramente può dare speranza ai tanti che desiderano camminare nella luce e può insegnare molto anche a noi che, troppo spesso, preferiamo guardare nel torbido delle pozzanghere che abbiamo sotto i piedi, piuttosto che riconoscere la freschezza del bene e ripulire il nostro sguardo alzando gli occhi verso la cima delle montagne, su cui, guarda caso, svetta sempre una croce in tutta la sua semplicità.
Se, alcuni anni fa, qualcuno ci ha insegnato a riconoscere la “banalità del male”, aprendoci gli occhi sulla realtà di un male devastante quando percepito come normale, credo sia arrivato il tempo di lasciare che un gesto semplice e immediato, come quello avvenuto in una terra così lontana come il Myanmar, apra il nostro sguardo sulla potenza salvifica della “banalità del bene”.
Sarà banale, appunto, concludere riaffermando che «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Ma di questa banalità abbiamo bisogno come l’aria per respirare.