Passione e fallimento
Se siamo onesti dobbiamo ammettere che in questo tempo abbiamo tutti sperimentato in maniera concreta il fallimento: abbiamo visto fallire continuamente speranze rispetto al miglioramento del contesto sociale, ma anche nel vissuto personale ci siamo tutti riscoperti molto più deboli di quello che avremmo pensato solo un paio d’anni fa. Domenica prossima inizieremo il cammino della Settimana Santa che ci porterà alla Pasqua di resurrezione: la liturgia ci proporrà la lettura della Passione secondo il Vangelo di Marco, come ad anticiparci quello che andremo a vivere in particolare nelle celebrazioni del Triduo.
Credo possa essere pertinente tentare di attraversare la lettura della Passione proprio a partire dai continui fallimenti che stiamo vivendo. Questa chiave lettura trova una magistrale interpretazione nella figura di un vero e proprio maestro del fallimento: Pietro.
La persona di Pietro condensa una possibile risposta alla seconda domanda chiave del Vangelo di Marco: chi è il discepolo?
Alla prima domanda su chi sia Gesù tutto il racconto della Passione offre una risposta. Sarà soprattutto l’affermazione del centurione sotto la croce a esplicitare in maniera chiara la risposta alla domanda sull’identità di Gesù. Ma per capire chi debba essere il discepolo, quali caratteristiche deve avere e soprattutto come si possa definire il suo atteggiamento di fronte al momento chiave della rivelazione, dobbiamo seguire ciò che ci viene raccontato di Pietro: la sua figura assolve proprio alla funzione di condurre il lettore a scoprire l’identità del discepolo. Proviamo a scoprirne insieme alcune caratteristiche.
Di fronte alla croce anche il discepolo rimane scandalizzato: non può fare affidamento sulle proprie forze; egli vive di grandi slanci di fronte alle proposte di Cristo, slanci che esprimono verità, ma che spesso sono destinati ad affievolirsi e dissolversi. Una fede matura deve fare i conti anche con la propria debolezza e con il proprio limite. Prima o poi saremo tutti chiamati a provare scandalo e forse anche rassegnazione di fronte a una specifica chiamata che il Signore ci rivolgerà attraverso i fatti della vita, magari proprio dentro a questa stagione che stiamo attraversando. Il Signore conosce le nostre debolezze e ci aiuta a capire che debbono essere svelate per essere superate.
Pietro segue Gesù da lontano: in Marco, Pietro è l’unico dei discepoli che comunque continua a seguire Gesù, certo da lontano, ma è l’unico. Seguirlo da lontano non basta, ma è anche vero che non avrebbe potuto essere altrimenti: come può il discepolo penetrare il mistero della redenzione? Solo attraverso il dono dello Spirito, dopo la resurrezione, inizierà un nuovo cammino di avvicinamento. È necessario che il seme muoia da solo perché porti molto frutto. Senza il dono dello Spirito è possibile seguire Cristo solo da lontano.
La grandezza di Gesù nel confessare la propria identità di fronte al Sinedrio è in netto contrasto con la debolezza di Pietro che non è capace di dichiararsi per quello che è realmente. La nostra identità credente è spesso difficile da sostenere. Di fronte al mistero della Passione dobbiamo farci piccoli, fidarci poco di facili definizioni. La nostra identità, come credenti, è una identità difficile, impegnativa, che deve essere costantemente messa al vaglio del confronto con la croce; non ci sono altre possibilità, o meglio, le altre possibilità rappresentano, in definitiva, facili scorciatoie.
Nelle affermazioni della giovane serva che incalza Pietro, viene enunciata, in maniera paradossale, una chiara definizione di discepolo. Il discepolo è colui che sta con Gesù e che fa parte del gruppo, la sua comunità. Non c’è debolezza che possa cancellare questa identità. Tutto ciò che viviamo insieme al Signore finisce per marcare in maniera indelebile la nostra più vera e profonda identità. Il discepolo è colui che impara a stare con Gesù. Nei momenti più difficili e tragici, solo facendo memoria, ricordando le sue parole, il tempo passato con lui, sarà possibile rientrare in sé stessi, accogliere i propri fallimenti nella sequela, integrarli per poter riprendere il cammino.
Il canto del gallo fa risvegliare Pietro dalla notte più buia e profonda della sua esistenza. Il discepolo che fa forza solo sulla propria volontà e che perde di vista la parola del maestro perde se stesso. Non si può seguire da lontano Gesù nella speranza che la sua vicenda non ci tocchi in profondità o credendo di poter vivere solo quello che riteniamo essere positivo e addolcire la nostra vita. Il dramma della Passione tocca e scuote il discepolo in profondità, lo porta a piangere, perché lo costringe a porsi seriamente le domande: chi sono io di fronte a tutto questo male e dolore? Chi è Lui che, innocente, sopporta tutto questo anche per me?
Nella fragilità di Pietro c’è dunque tutta la fragilità del discepolo: il discepolo ha paura del destino ma soprattutto spesso non comprende il perché Gesù debba morire non solo per lui, ma anche per tutti gli altri. Pietro è pronto a morire con Gesù, ma non capisce perché Cristo debba morire per chi lo ha rifiutato, dimenticando di essere anche lui proprio tra questi.
Il destino di Pietro è diametralmente opposto a quello di Giuda. Pietro rinnega, ma piange: è la figura del convertito. Il discepolo dunque è essenzialmente un convertito, o meglio, uno che si lascia convertire da uno sguardo e dall’amore che non viene meno, neppure di fronte alla morte. Se non c’è continua e costante conversione a questo amore, non c’è reale possibilità di diventare discepoli del Risorto. Di fronte alla tragedia della Passione però, gli esiti possibili sembrano essere due: quello di Pietro e quello di Giuda. Entrambi appartengono in qualche modo all’esperienza del discepolo. Non si può dare per scontato né l’uno né l’altro. Neppure nella nostra vita, neppure nel modo di stare di fronte ai nostri continui fallimenti.