Guerra e pace

Guerra e pace

Nel Vangelo di domenica prossima (Lc 24,35-48), dopo avere aperto la mente ai discepoli per comprendere la Scrittura, il Risorto, apparso in mezzo a loro per donare la pace, li esorta con queste parole: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

Credo che sia bello pensare alla Pasqua esattamente come al momento dell’anno in cui la vita della Chiesa ci ricorda questa straordinaria sintesi dell’annuncio evangelico: attraverso ciò che Cristo ha vissuto, diventa possibile la conversione di ogni popolo nella prospettiva che il peccato non abbia più il dominio sulla vita degli uomini. Si tratta di un vero annuncio di liberazione destinato alle orecchie di ogni uomo senza distinzione alcuna. Un annuncio di cui i cristiani sono depositari, ma che non è destinato soltanto a loro: come ci viene ricordato, dobbiamo diventare testimoni di tutto questo. In altri termini potremmo dire che la Pasqua è, ogni anno, un nuovo inizio e non un punto di arrivo.

Com’è possibile diventare testimoni di qualcosa che non si prova a vivere? Sappiamo tutti molto bene come la testimonianza vera passa principalmente attraverso la vita concreta prima che attraverso le parole; meglio ancora, le parole prendono forza e vigore attraverso una vita credibile, non perfetta, ma credibile in virtù della serietà degli sforzi compiuti per cercare di realizzarla nella sua pienezza.

I discepoli sono chiamati a diventare testimoni non di un fantasma, di una immagine diafana destinata a sparire a seconda delle suggestioni del momento, ma di un vivente che continua ad abitare la quotidianità con la sua presenza, in carne e ossa, con tutta la sua storia fatta di mani e piedi bucati.

La pace, quella vera, sembra venire non dai nostri sforzi, ma dalla capacità di accogliere ogni giorno il Cristo vivente nelle realtà più semplici e domestiche: pensare di avere il Risorto accanto a sé anche quando si cucina il pesce, si lavora in giardino, si fa la lavatrice e si stira, dà la giusta dimensione del significato di quella richiesta così strana da parte di Gesù: «Avete qui qualche cosa da mangiare?» Come a dire: capite che la mia vita continua a essere intrecciata con la vostra?

Il problema mi pare essere proprio questo: anche se abbiamo a disposizione le Scritture, continuiamo a fare una grande fatica a credere che la presenza del Risorto travalichi i muri, le incomprensioni della storia, le fatiche e le divisioni, per arrivare fino a noi oggi e ogni giorno.

Mi sorprende vedere come a distanza di secoli e dopo decenni di sforzi intensi per la pacificazione, anche in conseguenza della Brexit, in Irlanda del Nord possa esserci ancora qualcuno che giustifica la violenza sulla base di una qualche appartenenza religiosa, in un momento in cui sembra che la religione, soprattutto cristiana, interessi davvero a pochi: ma è davvero pensabile di poter utilizzare la fede in Cristo per generare divisione e sostenere ancora oggi una forma di contro-testimonianza così sfacciata? Forse, senza entrare in difficili analisi storiche che non mi competono, la recrudescenza attuale delle tensioni nel Nord dell’Irlanda dice di quanto fossero reali e allo stesso tempo pretestuose le violenze del passato e come i conflitti di religione nascondano quasi sempre un radicamento sociale molto profondo, ma che poco ha a che fare con la fede e la necessità di testimoniarla.

Noi europei con la puzza sotto al naso, rimaniamo spesso scandalizzati dalla violenza che abita tanta parte del mondo e giudichiamo frettolosamente queste realtà come arretrate perché incapaci di risolvere gli scontri sul piano diplomatico o attraverso gli strumenti della negoziazione. Dimentichiamo però che per secoli – e ancora oggi – siamo stati capaci di muovere guerre continue in nome perfino del Vangelo e che non abbiamo esitato a uccidere chi non si diceva ugualmente mosso dalle nostre stesse motivazioni di fede. Davvero una pessima testimonianza da parte di chi doveva accogliere prima di ogni altra cosa la necessità del dono della pace.

Oggi il continuo persistere della violenza mascherata da guerra di religione ci può aiutare a comprendere che il problema non sta nell’eliminazione di ogni forma e pratica della fede dall’orizzonte della sfera pubblica, come ancora crede qualche attardato fautore della superiorità della ragione illuministica. Infatti, sarà proprio la santa ragione a recuperare un uso distorto della religione per assecondare i suoi fini, spesso ammantati da forme di convenienza che poco c’entrano con la giustizia.

Il problema, per noi cristiani, sarà quello di iniziare a credere davvero in quello che speriamo e professiamo e a darne sempre più conto anche in forma pubblica, attraverso la vita delle nostre piccole comunità.

Dobbiamo «incominciare da Gerusalemme», cioè dalla vita della nostre famiglie, delle nostre comunità e della Chiesa: se non crediamo che il Risorto cammina con noi, per sanare le piaghe delle nostre relazioni ferite, come potremo costruire fraternità? Qualcuno, anche nella Chiesa, spera che il cristianesimo recuperi prima o poi una qualche forma forte di presenza sociale e istituzionale. Il Vangelo di questa domenica ci autorizza a credere che l’unica forma di presenza comprensibile agli uomini di ogni tempo è quella che avviene nella gratuità della testimonianza: solo questa presenza è trasparenza della pace che il Risorto realizza stando in mezzo a noi e lasciando che il nostro essere comunità si costruisca davvero attorno a lui.

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