Il giudice santo
Partiamo subito dalla notizia di questa settimana: niente a che vedere con le prime pagine, ma, in un momento molto delicato per la magistratura nel nostro paese, in conseguenza delle tante polemiche e delle presunte rivelazioni di questi giorni, sicuramente una boccata di aria fresca per tutti. Domenica prossima, 9 maggio, sarà beatificato ad Agrigento il giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990 a soli 38 anni.
La motivazione che spinse la mafia agrigentina a eliminare Livatino – si legge nel documento che ha annunciato la decisione della beatificazione da parte di papa Francesco – «fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di Cosa Nostra Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile, lo definiva con spregio “santocchio” per la sua frequentazione della Chiesa. Dai persecutori era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante».
Siamo di fronte alla figura di un uomo che ha cercato di tenere insieme realtà che troppo spesso, oggi, dimentichiamo possano e debbano effettivamente stare insieme: lavoro, fede e vita.
I santi, in fondo, prima di ogni altra cosa, sono esattamente questo: persone normali che si chiedono continuamente in che modo la fede sia chiamata ad essere il collante della vita. Non si tratta di seguire semplicemente delle leggi, contenute in un codice, o altre leggi che fanno riferimento all’etica o a una certa morale, si tratta di dare un’anima alla legge mettendoci la vita e il cristiano dovrebbe riconoscere, in definitiva, soltanto un modo per fare tutto questo: quello ispirato da Gesù attraverso il dono della sua stessa vita nell’amore.
Nel Vangelo di domenica (Gv 15,9-17) ascolteremo l’invito che Gesù fa ai suoi discepoli durante l’Ultima cena: «rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore». Solo l’amore genera comandamenti, obblighi che portano alla vita; solo l’amore permette di dare il giusto senso alla legge facendone una sintesi incredibile e provocatoria: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Qualcuno potrebbe pensare che il comandamento pronunciato da Gesù si riferisca, in fondo, solo alla relazione intima con i suoi discepoli e che quindi faccia riferimento ad una stretta cerchia di relazioni possibili, quella con gli amici. Del resto, Gesù stesso parla di questo, proprio alcuni versetti prima: essere suoi amici vuol dire fare quello che lui comanda. Questa espressione però può essere compresa in profondità se illuminata dalle parole che la precedono: «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici». Appunto: ciò che ci rende amici di Gesù è il renderci conto che lui dona la sua vita per noi.
Il nostro essere amici non è un’acquisizione di diritto, né una conquista da parte nostra: si tratta piuttosto di riconoscere che c’è una amore che ci precede e che, se accolto, ci rende liberi dalla nostra schiavitù. Tutti coloro che si accorgono di questo, hanno la possibilità di diventare amici di Gesù e del Padre. Il dono della vita di Gesù ci rende amici, ma anche il nostro donare la vita nel suo nome può rendere libero qualcun altro: il frutto di un amore accolto è sempre un amore donato che lascia aperta la possibilità a un nemico di diventare finalmente amico.
Tra le testimonianze raccolte durante il processo di beatificazione del giudice Livatino, mi ha colpito in particolare quella toccante di Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer del giudice, peraltro tutti giovani tra i venti e i trenta anni, che così si esprime dopo aver iniziato un lungo percorso di revisione di vita: «il giudice Livatino lavorava per tutti quei giovani che si erano persi nell’abbraccio mortale della criminalità. Lavorava, quindi, anche per me, per vedermi libero e vivo. Io non l’avevo capito». Il giudice Livatino non lavorava soltanto per riportare giustizia nelle sue terre, ma soprattutto per aprire una prospettiva di vita per coloro che apparentemente sembravano essere i suoi nemici. Certo si può offrire la vita per un ideale, fosse anche la giustizia, ma non si può donarla se non a qualcuno, al volto di chi si spera possa diventare tuo amico: l’amore donato, quando viene accolto, trasforma in uomo libero perfino un assassino.
La pagina di vita e di fede di un martire del nostro tempo, un uomo che ebbe perfino la delicatezza di rinunciare alla scorta, per evitare che dei padri di famiglia andassero incontro alla possibilità di morire con lui, ci offre un commento luminoso alle parole del Vangelo: solo di fronte ad un amore accolto e sentito vivo si può arrivare a mettere a disposizione la propria vita. Siamo allora invitati anche noi a riconoscere questo amore, soprattutto nelle tante forme pratiche e concrete che riceviamo quotidianamente e che plasmano le nostre giornate, gesti e parole a cui spesso diamo pochissimo peso e valore. Quando li sappiamo riconoscere smettiamo di essere servi e diventiamo persone libere, libere soprattutto di iniziare a scorgere potenziali amici anche dietro al volto di chi ci è indifferente o addirittura ci odia.