Unità di misura e vita piena
La domanda del tale che si getta in ginocchio davanti a Gesù è una vera e propria richiesta di felicità: il chiedere in eredità la vita eterna non riguarda soltanto il futuro, ma coinvolge anche una ricerca di senso per il presente, la richiesta di una indicazione chiara per una vita spendibile in pienezza e con gusto, quella che oggi, appunto, chiameremmo ricerca della felicità.
Pare normale pensare di rivolgere una tale domanda a qualcuno che si ritenga abbia più esperienza e che per autorevolezza possa essere ritenuto un maestro; meno normale, per un ebreo, definire un possibile maestro con l’aggettivo buono, aggettivo riservato soltanto a Dio. Ciò che pare una forzatura, sottolineata dalla risposta di Gesù, appare invece per quello che è realmente: Gesù è buono non semplicemente perché maestro irreprensibile, ma perché Dio e partecipe in pienezza della bontà del Padre. La questione in definitiva sta tutta qui: il tale interroga Gesù per ricevere indicazioni su cosa fare per essere felice, ma il segreto della vera felicità e della pienezza, per Gesù, sta su un piano differente, quello della relazione con Dio. Stai con Dio e sarai felice, riceverai una vita che non finirà mai.
Si possono fare molte cose e farne tante giuste, ma per essere felice davvero non basta: c’è bisogno di orientare quello che si fa ad una relazione vera e profonda con il maestro buono che ci insegna a vivere con la sua stessa vita. Mettersi alla sua sequela offre la garanzia di una piena realizzazione, cioè di una vita vivibile in pienezza, una vita interamente spesa, capace di raccontare tutte le sfumature dell’esistenza.
La promessa è chiara: chi è capace di lasciare fratelli, sorelle, madre e padre, figli, campi a causa del Vangelo, otterrà tutto quello che la vita già ora può mettere a disposizione e del tutto, volenti o nolenti, fa parte anche la sofferenza e la possibile persecuzione. Questo non deve spaventare perché chi lascia, accogliendo lo sguardo di amore di Dio su di sé, trova quella serenità di fondo che non può più essere messa in discussione da nessuno, se non da se stessi. Il problema sta proprio nell’accettare di essere legati alle nostre cose, ai nostri beni, alle nostre consuete relazioni, quelle che ci danno un po’ di sicurezza ma non la felicità: se non impariamo ad ammettere che cerchiamo continuamente la vita nelle cose che facciamo e non nell’atteggiamento di fondo che possiamo diventare, alla fine reagiremo sempre come il protagonista di questo racconto che dopo aver interrogato Gesù non ne capisce la risposta. Preoccupato di perdere, di essere stato invitato a lasciare senza ricevere nulla in cambio, non si accorge di essere amato, cioè di aver trovato esattamente quello che stava cercando. La vita piena ha un’unica unità di misura che è quella dell’amore. Ci possiamo sentire pieni e soprattutto possiamo scoprire di esserlo davvero, nel momento in cui ci lasciamo amare e scopriamo possibile superare ogni forma di attaccamento.
Il tale del Vangelo di questa domenica (Mc 10,17-30) se ne va triste perché non capisce che Gesù lo vuole fare libero con il suo amore: preferisce rimanere legato alle sue cose, ma ha intuito che la ricerca della felicità sta su un altro piano. Va via triste perché, pur sentendosi amato, non ha il coraggio di fare il salto che Gesù gli chiede di fare: non si tratta tanto di lasciare delle cose o delle relazioni, ma di passare dal piano di quello che io credo di poter fare a riconoscere quello che Dio sta già facendo per me.
Ogni regola che ci imponiamo per ottenere qualcosa, anche semplicemente per sentirci più buoni, erode un po’ alla volta il nostro bagaglio di felicità, se non trova un radicamento del tutto differente, se non trova ragione in un amore più grande del nostro.
Di fronte al rifiuto, l’affermazione di Gesù davanti ai suoi discepoli potrebbe sembrare una sentenza definitiva che inchioda ciascuno alle proprie responsabilità. La denuncia fatta nei confronti dei ricchi che non erediteranno il Regno appare spietata e difficile da accettare, ma se fosse solo una aperta denuncia nei confronti delle ricchezze di questo mondo, non si capirebbe lo sgomento dei discepoli che già avevano deciso di lasciare tutto e seguirlo.
I discepoli sono spaventati perché hanno capito bene che Gesù sta mettendo in discussione ogni forma di attaccamento, quella forma di ricchezza che ciascuno ha, anche chi è povero, di fronte alla quale non è disposto a fare un passo indietro. Tutti siamo ricchi di qualcosa a cui difficilmente siamo disposti a rinunciare, perché tutti continuiamo a credere di doverci salvare da soli.
Gesù ci ricorda che solo Dio è buono, solo Dio è capace di salvare. Nulla è impossibile a Dio perché, amando davvero, è perfino disposto a concedere nuove possibilità anche a chi preferisce continuare a essere triste, a tutti noi che preferiamo sembrare ricchi ma che spesso ci sentiamo poveri e che dentro lo siamo realmente. In fondo le notizie riguardanti l’uso di droghe e alcol continuamente in aumento tra i giovani e non solo, notizie che riaffiorano carsicamente qua e là nell’ultimo anno, ma che sembrano essere rilegate agli studi di settore o alle pagine di cronaca nera e giudiziaria, parlano di una infelicità diffusa, di un vuoto che il benessere non può colmare.
Continuiamo a raccontarci la favola che le dipendenze fioriscono là dove c’è degrado e povertà, dimenticando che sono parte costitutiva dello sfondo della nostra ricca società e di ogni società che confonde i piani dell’essere e dell’avere. La risposta che Gesù continua a ripetere è sempre un invito a seguirlo per essere felici e non per avere felicità.