La sindrome del figlio unico
La quarta domenica di Quaresima, detta in Laetare, dovrebbe essere un tempo in cui rallegrarsi dopo aver percorso più della metà del cammino quaresimale e intravedere la gioia pasquale della risurrezione, ma i giorni che ci vengono consegnati sono difficilmente accostabili a questa prospettiva: le notizie di guerra catalizzano tutte le attenzioni e sembrano gettare in un tragico cono d’ombra tutti gli avvenimenti che vorrebbero allargarsi ad altre traiettorie.
Sentiamo tutti il peso di una situazione che percepiamo tragica e rischiamo di cadere vittime di una forma di depressione indotta che distorce il reale: raccontiamo a noi stessi di essere in guerra senza dimostrare quel minimo di rispetto dovuto e necessario a chi la guerra la sta vivendo davvero.
Quando il giudizio si annebbia non è soltanto conseguenza della difficoltà oggettiva di interpretazione degli avvenimenti: spesso si tratta, più semplicemente, del sintomo di un modo malato di leggere la realtà. La corsa agli armamenti, il parlare con disinvoltura della possibilità di una guerra atomica, per non dire di cose addirittura ridicole come l’aumento di commesse da parte di privati per la costruzione di bunker antiatomici, racconta di una ragione che si sta annebbiando e che, come al solito, nei momenti di maggiore difficoltà, finisce per cercare rifugio nella più primordiale e tragica delle leggi vitali, quella della violenza e della sopravvivenza del più forte. Dovremmo mettere tutte le nostre forze a disposizione del dialogo, della solidarietà, cercando di ricostruire reti di confronto e possibilità di apertura e invece ci guardiamo attorno e preferiamo mettere al riparo le nostre poche sicurezze facendo leva sulle nostre presunte convinzioni.
Non ci accorgiamo di perdere acume nella vista e gusto per le relazioni: realtà di cui tutti dovremmo fare tesoro soprattutto nei momenti più difficili. Proprio quando la fraternità sembra vacillare è necessario investire ancora di più su questo tratto fondamentale del vivere, senza paura, senza dubbi o falsi pudori.
La parabola che l’evangelista Luca mette al cuore del suo Vangelo e che la liturgia ci offre in questa domenica (Lc 15,1-3.11-32) è l’invito eloquente a rallegrarsi della possibilità di vivere ancora da fratelli. Si tratta di accogliere l’invito ad entrare per far festa che il padre rivolge al figlio maggiore, dopo aver ritrovato quello minore che si era perduto. L’invito non può non essere rivolto anche a noi, a noi che siamo esattamente nella condizione dei due figli: uomini e donne dallo sguardo annebbiato che non sanno più riconoscere l’unica realtà che potrebbe fare vivere loro una vita degna di tale nome: la fraternità.
Il figlio minore crede di poter vivere la pienezza della sua autonomia rifiutando di avere un padre: chiede la parte di eredità perché giudica morto suo padre. Pensa di poterne fare a meno e di poter realizzare i propri sogni andando dietro ad ogni bisogno; facendo così però dimentica anche di avere un fratello e si priva della possibilità di vivere quelle relazioni fondamentali che ti aiutano a posizionarti nella vita con la giusta misura e prospettiva.
Il fratello maggiore vive come un servo, anche lui completamente dimentico del fratello che ha deciso di andarsene, ma anche del padre a cui non è capace di chiedere nulla.
In mezzo un povero padre che aspetta e ama: attende che i figli ritornino alla consapevolezza di quello che sono, non tanto per riaverli a casa, come capita spesso a quella mamma desiderosa di avere il proprio figlio tutto per sé, ma per potere riaccendere nel loro cuore la convinzione gioiosa che avere dei fratelli è la risorsa decisiva dell’esistenza.
La pazienza del padre che non accetta di leggere la morte nel proprio amore ferito e non riconosciuto è il vero motore di questo racconto così intrigante e pieno di mistero: il mistero è quello di un Dio che attende di essere riconosciuto per svelare a noi uomini la possibilità di vivere da fratelli.
La pazienza di Dio è la notizia bella e rassicurante di questi giorni così travagliati, una pazienza non a buon mercato, voluta, cercata, frutto di dolore e per questo credibile. Un padre che si lascia ferire dalla sfiducia dei figli senza chiedere spiegazioni, racconta di un Dio oggi disponibile ad accogliere le nostre fatiche e i nostri annebbiamenti, capace di portare il peso di tutte quelle proiezioni che noi continuamente facciamo su di lui, senza accettare di lasciare parlare la sua misericordia e il suo perdono.
É questa l’allegria di cui siamo chiamati a dare conto domenica prossima: volti distesi e sguardo lucido verso il futuro. La pazienza di Dio è molto più tenace della nostra cocciuta incapacità di credere che si possa vivere da fratelli.
La logica della guerra è quella di alimentare continuamente inimicizie e generare sempre nuovi nemici: il nostro atteggiamento nei confronti della vita non può essere abbandonato a questo sentimento, non può essere lasciato in balia di una visione distorta della realtà dove l’altro è figlio di mio padre senza però essere mio fratello. Se questa parabola, insieme alle altre della misericordia, è stata raccontata da Gesù per farisei e scribi mormoratori, allora, oggi di fronte all’estenuante chiacchiericcio nostro e di chi ci vuole spiegare tutto, dobbiamo umilmente accettare di fare silenzio per accogliere ancora una volta il miracolo della fraternità come unica risposta vera a ogni forma di odio e indifferenza.