Doppio cognome e identità piena
Pochi giorni fa la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che prevede l’attribuzione automatica del cognome paterno a un figlio, sancendo così un principio di uguaglianza di genere nei rapporti famigliari tutt’altro che scontato: si potranno mantenere tutti e due i cognomi oppure i genitori, di comune accordo, potranno scegliere quale dei due mantenere.
In questo modo, a tutti viene garantita la possibilità di un’identità più piena, almeno dal punto di vista simbolico: tutti avranno l’opportunità di riconoscere immediatamente un’appartenenza che tiene conto, in egual misura, di un’origine che è sempre doppia. Pare un aspetto secondario e di poco valore, ma mi pare possa essere un piccolo passo nella direzione della giusta parità di genere, una parità che tenga conto delle differenze senza sbilanciarsi su inutili appiattimenti in una direzione o nell’altra.
In un tempo così travagliato anche le piccole notizie possono aiutare a portare un po’ di serenità se viste nella giusta prospettiva. Molti potrebbero vedere in questa dichiarazione un’inutile complicazione che farà lievitare soltanto le difficoltà burocratiche, ma a me piace vedere in essa il giusto riconoscimento di una realtà fondamentale della vita: siamo fatti di storie complesse, impastati di origini e provenienze che non vanno risolte, ma riconosciute, accettate e valorizzate. Il portato delle nostre origini, che ci piaccia o no, va accettato nella sua interezza per produrre qualcosa di veramente nuovo e differente. Il doppio cognome parla di una storia completa, dice di un’identità che per produrre futuro sa riconoscere una storia che non può e non deve perdere pezzi. Questa vicenda apparentemente così leggera e trascurabile mi pare in perfetta sintonia con la figura di Pietro che, anche in questa terza domenica del tempo di Pasqua anno C (Gv 21,1-19) attraversa le vicende dell’ultimo capitolo del Vangelo di Giovanni.
Siamo sul lago di Tiberiade e Pietro, insieme ad altri discepoli, è tornato a quella pesca che gli ha sempre permesso di sopravvivere: dopo la morte del maestro è sembrato logico rifugiarsi nelle proprie sicurezze, in quello che si sa fare con certezza. Logico ma non nella prospettiva della resurrezione: il ritorno al passato non è garanzia di nulla, infatti la pesca si conclude con un fragoroso insuccesso. Sarà l’incontro con il Risorto, il tono di sfida che tante altre volte aveva caratterizzato la voce del maestro, a rimettere in moto il desiderio di qualcosa di grande e straordinario. La pesca miracolosa diventa il sigillo sulla consapevolezza che le nostre povere reti, per funzionare davvero e riempirsi di quella vita che cerchiamo, hanno bisogno di affidarsi ad un comando che ci insegna a pescare in un modo nuovo e mai sperimentato.
La scena continua sulla riva del lago dove Gesù aspetta i suoi per condividere un pasto che lui ha già preparato ma che, con infinita delicatezza, chiede di completare con quello che i discepoli hanno portato: come sempre, ci viene chiesto di metterci del nostro per entrare pienamente in relazione con Dio; così è dell’eucaristia dove il pane e il vino, frutto della fatica e del lavoro dell’uomo, vengono elevati e trasformati nella sua presenza e nel segno concreto della comunione possibile tra fratelli.
Infine il Vangelo si sofferma sul dialogo tra il Risorto e Pietro: sono infinite le possibili suggestioni che potrebbero nascere da un brano come questo. Lo schema della triplice domanda ricalca evidentemente quello del triplice tradimento vissuto da Pietro durante la Passione, ma c’è molto altro. Non si tratta soltanto di permettere un pieno ravvedimento e un’occasione chiara e definitiva di perdono: sarebbe già straordinario, ma è ancora troppo poco per Dio.
Nel consentire a Pietro di ripercorrere i gradi dell’amore e del tradimento di questo amore, gli si permette di fare i conti con tutta la complessità della sua vicenda umana e personale: niente deve essere buttato, tutto deve essere integrato e messo al posto giusto. Per essere davvero pronti a seguire Gesù è necessario scendere dal piedistallo e riconoscere che anche grazie ai fallimenti diventiamo capaci di fare veramente spazio a lui. Quando mettiamo da parte l’illusione di essere noi i protagonisti del nostro eroico seguire il Signore, quando il limite della nostra volontà fa esperienza del fallimento possibile e inevitabile, lì si creano le condizioni per un’apertura vera alla missione, lì diventa possibile accogliere quella seconda chiamata a seguirlo che apre alla possibilità di diventare persone nuove.
Pietro non vine perdonato per dimenticare. Viene invitato a ricordare la povertà del suo amore per Gesù, perché impari a fare spazio all’amore che il suo Signore ha per lui: questa è la condizione vera per diventare autentici discepoli del Risorto. Abbiamo tutti un doppio cognome, che lo vogliamo o no, siamo il frutto di una storia complessa che va sempre tenuta insieme se vogliamo cogliere la bellezza della nostra identità: seguire lui è il vero spartiacque dell’esistenza, ma per arrivare a dire il nostro sì e imparare davvero a lasciarci condurre, dobbiamo sempre, ogni giorno di nuovo, fare i conti con la nostra vita fatta di slanci generosi e di fallimenti rovinosi. Pietro ha imparato a seguire il suo Signore non perdendo pezzi della propria storia, ma tenendoli insieme e ricordando fin nei minimi particolari anche le pagine dolorose dei propri insuccessi: quello che ha capito è che proprio lì il Signore lo attendeva per guarirlo davvero e a un livello sempre più profondo.