Lupi vestiti da agnelli
C’è pace e pace. A livello internazionale si cerca la pace attraverso la diplomazia, tentando di mantenere in equilibrio le istanze dei vari governi, a seconda degli orientamenti politici e i diversi assetti istituzionali. C’è la pace di cui tutti parlano e che tutti sembrano volere, ma che in realtà tutti sanno essere basata sull’imposizione del più forte attraverso l’illogico uso delle armi. C’è la pace frutto di faticosissimi e snervanti negoziati, pace fragile e spesso in balia degli eventi, oppure la pace sociale che ogni paese cerca di realizzare al proprio interno a dispetto delle crisi economiche e delle crescenti disuguaglianze.
C’è una pace idealizzata e paradossalmente cercata spesso attraverso un linguaggio violento e contraddittorio: una pace più cercata a parole che vissuta nei fatti e nelle relazioni di ogni giorno.
Abbiamo poi in testa che, alla condizione di pace debba corrispondere una condizione generale di benessere: non sto parlando di giustizia, necessario viatico alla pace, ma di quello stato di sicurezza e soddisfazione personale che ormai facciamo quasi solo derivare dalla quantità di denaro che abbiamo in conto: come se da questo potesse derivare ogni sicurezza.
Certo che la pace dipende anche dal raggiungimento di un buon livello economico, ma solo nella misura in cui questo aspetto sia mitigato dalla realtà di una giusta e solidale distribuzione dei beni che tenga conto della loro destinazione universale, da cui oggi, siamo molto lontani.
Vi è poi l’idea di una pace legata ad una prospettiva puramente funzionale, quella del quieto vivere: la pace vissuta come assenza di problemi e continuo tentativo di evitare discussioni e soluzioni nuove: quella che spesso viviamo nelle nostre famiglie, nelle relazioni e che per anni ha appiattito anche il vissuto di molte realtà ecclesiali.
Oggi si fa un gran parlare di pace: non c’è strumento di comunicazione che non faccia risuonare l’uso di questo termine, ma come spesso accade, ampliandone anche il possibile ventaglio di interpretazioni, in molti casi, del tutto discordanti fra loro.
Assistiamo a manifestazioni, dibattiti, discussioni parlamentari o semplici discussioni tra amici che mettono continuamente a tema la questione della pace: vale la vecchia e sana regola che, se di una realtà se ne parla troppo, è perché ne risultiamo totalmente sprovvisti.
Il Vangelo della sesta domenica di Pasqua anno C (Gv 14,23-29) parla della pace di Gesù come qualcosa di diverso dalla pace che offre il mondo: la pace che viene dal dono dello Spirito è realtà che trasforma il cuore, il mio cuore per primo, facendone una realtà stabile e sicura.
Rimarranno dubbio e fragilità ma in un contesto di stabile certezza, quella di non essere abbandonati. Nel sapere che Gesù torna al Padre per stare presso di lui dove ci attende, il discepolo nutre la sua vita di speranza e sa riconoscere nella fraternità il dono che fa del cuore un luogo sicuro.
La pace che Gesù ci mette a disposizione nasce dal ricordo di eventi passati da vivere nella nostalgia e nel languore di un caldo rimpianto? Evidentemente no, perché ci viene detto che sarà frutto del ricordo delle sue parole che avranno stabile dimora in noi soltanto se lasceremo spazio all’azione dello Spirito.
Ecco la qualità della pace che ci offre il Vangelo: quella basata sul riportare alla mente continuamente le parole di Gesù che in lui trovano una piena realizzazione e che in noi attendono di essere trasformate in vita vissuta per l’oggi.
Lo Spirito ha il compito di aiutarci a sentire che le parole di Gesù possono essere abitate in ogni tempo e trovare collocazione in ogni generazione: lasciarci amare da lui vuol dire lasciare che la sua parola dimori in noi perché noi possiamo dimorare nel suo amore e così conoscere il Padre.
La pace che ci offre Gesù è diversa da quella che ci presenta il mondo perché frutto non solo delle nostre necessarie fatiche, ma anche e soprattutto dell’azione dello Spirito Santo che ci insegna quali vie percorrere e dove dimorare per lasciare che il nostro cuore trovi davvero riposo.
Non siamo illusi, non ricerchiamo la pace parziale e debole che nasce dal nostro benessere e dalle fatiche degli altri. Vogliamo sintonizzarci sulla pace vera che chiede la fatica continua e costante di lavorare su di sé per fare spazio e creare le condizione migliori perché il Padre e il Figlio possano dimorare in noi.
Amare veramente vuol dire fare spazio all’altro: non c’è nulla di più faticoso che rinunciare a se stessi perché l’altro possa trovare spazio in noi. Non c’è nulla di più esaltante che sperimentare questa forma di pace che nasce dall’accoglienza. Prendersi il tempo di frequentare la Parola è il discorso possibile del cristiano sul tema della pace: quello che non mancherà di generare frutti concreti anche nel dibattito pubblico di questi giorni frequentato da molti lupi vestiti da agnelli.