Per sempre
Tutte le cose degli uomini prima o poi sono destinate a finire: in questi giorni tutti i mezzi di comunicazione ci ricordano il giubileo regale della regina Elisabetta, giunta ai settant’anni di regno e, onestamente, pur augurandole ogni bene, c’è da dubitare che possa continuare ancora a lungo, anche se, il sospetto che possa essere immortale avrà toccato sicuramente la mente del figlio Carlo. Nel mio piccolo, invece, ho pensato, chiacchierando al telefono con un amico di Monza e commentando amabilmente la storica promozione in serie A della squadra brianzola, che l’attuale presidente del club sia lo stesso che più di trent’anni fa segnava l’inizio di uno storico ciclo di vittorie con un’altra squadra lombarda, diventando anche e sempre di più in altri campi, il vero nume tutelare, nel bene e nel male, della mia generazione: sono però abbastanza certo, nonostante evidenze in senso contrario, che prima o poi anche questa tutela finirà.
Al momento in cui scrivo, poi, tutti ricordano che sono trascorsi ben cento giorni di una guerra che sta cambiando il mondo, lasciando presagire che probabilmente andrà avanti ancora a lungo; ma anche questa tragedia finirà prima o poi, lasciando il suo inevitabile strascico di morte e distruzione. Sia che si parli di realtà tragiche o di facezie di vario genere, tutto sembra destinato a finire: si potrebbe ammettere con un certo disincanto che, prima o poi, la morte arrivi a stendere il suo manto sulle realtà degli uomini, livellando con la sua corsa ogni differenza sociale e ogni distinzione.
A molti questa potenza livellatrice della morte piace perché in fondo giusta e liberante: a Gesù no. Gesù non tollera la morte e soprattutto non può tollerare la sua pretesa totalizzante di ridurre la vita degli uomini a qualcosa che semplicemente finisce. Certo tutte le realtà che danno forma storica alle manifestazioni del vivere subiscono trasformazioni, cambiamenti radicali e vengono abbandonate, ma ci deve essere qualcosa che rimane per sempre e che unisce le generazioni l’una all’altra qui sulla terra e nella vita che continua oltre la morte. Questa è la convinzione di Gesù, quella che trasmette ai suoi discepoli e che innerva la vera rivoluzione cristiana arrivata fino a noi.
C’è un per sempre che accompagna il dono dello Spirito consolatore che, agli occhi di Gesù, diventa la promessa che cambia la vita degli uomini. Nella solennità di Pentecoste, attraverso le parole del Vangelo di Giovanni (Gv 14,15-16.23-26), accogliamo anche noi la promessa che nella nostra vita possa esserci qualcosa che dura per sempre, al di là della morte e di ogni restrizione. Amare e vivere secondo le parole di amore di Gesù sono azioni che aprono alla possibilità di accogliere un dono definitivo e assoluto: dimentichiamo con grande facilità che dietro ai nostri piccoli e spesso insufficienti tentativi di amore c’è la preghiera di Gesù che con insistenza chiede per noi il dono dello Spirito. Ogni volta che amiamo siamo sostenuti dallo Spirito che ha il compito di ricordarci che siamo destinati a vivere e non a morire.
Lo Spirito ci è necessario perché abbiamo la memoria corta e spesso pensiamo che tutto abbia la consistenza del nostro limite e delle nostre misure: lo Spirito allarga le prospettive e semina il ricordo non del passato, di quello che Gesù ha detto e fatto ormai più di duemila anni fa, ma delle sue parole che attraverso il tempo giungono alle nostre menti e ai nostri cuori per dirci che c’è qualcosa che attraverso una catena di amore non smette mai di esistere.
In fondo la Chiesa c’è per ricordare a ogni uomo che da Gesù in poi, la storia ha cambiato segno, diventando non più il luogo delle vicende che ritornano più o meno simili tra loro ma in forma mai del tutto uguale. La storia è ora il luogo in cui il per sempre di Dio si può manifestare come qualcosa di stabile e indistruttibile nella forma dell’amore.
Paraclito significa consolatore: il suo compito è quello di sollevarci di fronte alla tristezza della morte che sembra attaccarsi a ogni realtà senza avere rispetto di nulla e trascinando ogni cosa nella nebbia di una memoria che non trattiene nulla. Il Paraclito risveglia la nostra memoria e la rende forte, capace di sostenere perfino l’urto contro la morte: siamo resi capaci di ricordare il bene e di trasmetterlo, diventando anche noi parte di una catena che non può essere spezzata. Pentecoste, allora, non può essere soltanto la festa di un giorno, la domenica in cui si fa memoria di un dono che è destinato a finire: non può essere la gioia che esplode in un momento per la promozione della propria squadra del cuore o la festa per la memoria grata del regno di una sovrana che prima o poi verrà sostituita. Non può essere neppure la festa gioiosa di chi ritrova pace dopo anni di guerra, sapendo che qualcosa di spiacevole accadrà di nuovo: Pentecoste dovrebbe essere il giorno in cui ricordarci che abbiamo un dono che, accolto, trasforma la nostra vita per sempre visto che siamo destinati a vivere per sempre.