Abbi pietà di noi!
Quando si arriva alla disperazione non resta che affidarsi a Dio, visto che l’alternativa è il vuoto che sperimentiamo dentro di noi ma soprattutto attorno a noi. Sarà stato questo l’atteggiamento dei dieci lebbrosi che nella pagina di Luca di questa XXVIII domenica del tempo Ordinario anno C (Lc 17,11-19), ci vengono presentati nel momento in cui incontrano Gesù.
Rispettosi delle prescrizioni della legge, stanno lontano, esclusi da ogni possibile contatto con il resto della popolazione, alzando il loro grido per essere visti. Sanno che Gesù ha già compiuto miracoli e che di lui si parla come di un nuovo profeta, sperano di poter essere guariti per tornare alle proprie vite, alle proprie famiglie, ad una vita normale fatta di relazioni. Sanno di essere morti che camminano, persone che nessuno vuole vedere e che nessuno può aiutare: sanno molto bene tutte queste cose ma hanno il coraggio di gridare, di attirare l’attenzione di Gesù attraverso l’espressione tipica di chi si riconosce bisognoso dell’aiuto di Dio. Abbi pietà è espressione forte, tipica della tradizione biblica: parole che i salmi mettono in bocca al sofferente, al peccatore, a chi sente e riconosce che la solitudine senza legami porta ad un dolore indicibile che toglie il respiro e la vita. I dieci lebbrosi sperimentano tutto questo e sembrano trovare la forza della disperazione per emettere un ultimo grido, lo stesso che Israele innalza a Dio nel momento in cui diventa consapevole della propria tragica condizione di schiavo in Egitto.
Forse non ci troviamo ancora nella stessa condizione dei lebbrosi, forse non riteniamo necessario dovere gridare per essere visti, magari abbiamo l’intima convinzione di godere ancora di una certa immagine da difendere e che ci difende dagli attacchi esterni, eppure non mi sembra che le cose vadano bene: non parlo della condizione dei tanti esclusi che attraversano con le loro malattie sociali e non, la realtà di questo mondo; sto parlando di noi, noi che ci crediamo sani e fortunati, e che per tanti aspetti lo siamo realmente, ma che non sappiamo riconoscere la nostra condizione di malati, di esseri fragili e sull’orlo della disperazione.
Negli ultimi giorni si sottolinea con insistenza la possibilità reale che nel conflitto in atto nell’Est Europa si arrivi all’utilizzo di armi tattiche nucleari: quello che per decenni è stato un vero e proprio interdetto, spaventoso anche solo a pensarlo, oggi diventa possibilità reale e tutti gli analisti ne parlano come una delle opzioni tra le tante che la follia della guerra continua a generare. Signore abbi pietà di noi! Abbiamo perso il senso della misura: abbiamo bisogno di essere mandati per essere purificati: come i dieci vengono inviati ai sacerdoti, secondo le prescrizioni della legge, perché ne venga certificata la guarigione, anche noi abbiamo bisogno di essere inviati a fare i conti con la legge della vita, quella legge della logica e del buon senso che ci dice che dopo la distruzione totale c’è solo altra distruzione, fino alla fine. Se avessimo almeno il coraggio di gridare tutta la nostra miseria, forse riusciremmo a udire la voce del Signore che ci vuole purificare e liberare dalla malattia dell’egoismo che non solo ci rende soli ma anche stupidi. In questo momento della storia sarebbe già tanto se riuscissimo a fare questo: riconoscerci semplicemente malati.
Questo basterebbe a Dio per purificarci, per guarirci in maniera gratuita, senza chiedere nulla in cambio: il Signore non ha finito di abitare il mondo con la sua presenza di bene che sana e guarisce. I lebbrosi vengono mandati e guariti: si sono fidati di una parola che li invitava a sperare e nella più piena gratuità hanno accolto la guarigione.
Tutti vengono guariti e pazienza se i nove che avrebbero dovuto riconoscere nella propria guarigione la presenza dell’azione del Dio di Israele, loro che erano giudei e che avevano comunque tutti gli strumenti per poterlo fare, non riescono a farlo.
Pazienza perché almeno uno è tornato a rendere gloria a Dio: uno straniero, un samaritano eretico, ha riconosciuto in Gesù la presenza del Padre e l’azione buona di Dio nella sua vita. Il samaritano ringrazia e loda non perché è guarito, ma perché ora sa che nome dare a chi genera il bene: la fede in questo nome d’ora in poi lo rende un uomo salvato e non più soltanto guarito. In questo momento in cui la lebbra della guerra ci toglie il fiato e la speranza, sarebbe importante riconoscere la malattia per recuperare voce e credere che sia ancora possibile accogliere il bene per essere risanati: sarebbe un primo passo importante, nell’attesa di essere sostenuti dalla fede di chi tornando ai piedi del Signore della vita, sa riconoscere da dove proviene davvero il bene che salva. Ci sarà sempre un samaritano pronto a ritornare ai piedi di Gesù, pronto a professare la fede per sé , ma capace di accogliere un secondo invio, a farsi annunciatore di salvezza anche per i nove che non sono ritornati: anche oggi potrebbe essere uno straniero, ma perché non pensare che potremmo esserlo anche io e te?