La ballerina interrotta e l’arte della pesca

La ballerina interrotta e l’arte della pesca

Il writer padovano Any (acronimo di “About New York”), viene sorpreso una mattina da una pattuglia della polizia mentre sta realizzando un murales senza alcuna autorizzazione sulla grigia e anonima parete di un parcheggio. Il codice penale è chiaro nel definire reato l’imbrattamento, quindi necessariamente, attraverso un processo, si dovrà definire l’identità del danno e di conseguenza la consistenza della pena. Alle volte, però, la conclusione di storie che sembrano scontate ci sorprende: la pubblico ministero chiamata a istituire il processo decide di archiviare il procedimento riconoscendo che la ballerina raffigurata sul muro di quel parcheggio, da tutti già ribattezzata la ballerina interrotta, non rappresenta affatto un deprecabile segno di degrado, ma un’opera che arricchisce la qualità estetica di un luogo, altrimenti del tutto anonimo e insignificante.

Immaginiamo che l’artista in questione avesse già piena consapevolezza della propria identità artistica e della propria missione: del resto la street art nasce proprio come risposta polemica al grigiore e all’abbandono delle periferie delle grandi aree metropolitane e da sempre si pone in atteggiamento di protesta nei confronti di una società globalizzata e consumistica, utilizzanto gli stessi identici strumenti comunicativi: un linguaggio comprensibile a tutti, immediato e di facile diffusione; la logica della performance che sorprende e chiede di essere discussa; uno strumento grafico di matrice pop che incrocia il mondo dei fumetti e dei manga, raggiungendo immediatamente la comprensione del pubblico dei più giovani.

Il rischio di andare contro la legge fa parte del messaggio, ma anche di quella dose di responsabilità che un’arte, apparentemente disimpegnata, sa prendersi laddove voglia ancora esprimere una certa funzione sociale.

Quello che sorprende è lo sguardo di chi dovrebbe riconoscere un reato, un fallimento, un danno per la società e che invece sa vedere la bellezza oggettiva di ciò che migliora la qualità della vita, perfino delle persone che in maniera del tutto utilitaristica fraquentano ogni giorno un anonimo parcheggio.

Colui che dai più verrebbe visto come un vandalo, viene riconosciuto per quello che è, un artista, e la sua opera, come l’occasione per altri di vedere la propria quotidianità arricchirsi di un valore estetico ed emozionale del tutto inaspettato.

L’esito di questa vicenda offre lo spunto al commento del Vangelo di questa III domenica del Tempo Ordinario anno A (Mt 4,12-23): lo sguardo avveduto e sapiente di una pubblico ministero richiama la profondità dello sguardo di Gesù al momento della chiamata dei primi discepoli: in coloro che da tutti erano visti come semplici pescatori, Gesù sa riconoscere un’identità inattesa. La bellezza può irrompere nel quotidiano di ciascuno se lasciamo che lo sgurdo di Gesù si posi sulle nostre vite: abbiamo bisogno di credere a questa possibilità, abbiamo la necessità di credere che ci sia qualcuno capace di intravedere in noi questa possibilità, ma ancor di più abbiamo l’assoluta necessità di lasciarci indicare che questa possibilità si realizza anche nella vita degli altri.

Pochi giorni fa a Palermo si è spento Biagio Conte: un matto, agli occhi dei più. Una persona che lasciandosi guardare da Dio in modo diverso da come lo vedevano tuttti gli altri, ha scoperto la bellezza della propria esistenza e non ha accettato che altri potessero vivere in modo brutto, assediati dalla miseria e dall’indifferenza: lui sapeva di essere un artista perché qualcuno glielo aveva confermato, ma per fortuna, tanti hanno saputo riconoscerlo e hanno potuto godere della bellezza della sua opera. Come la grazia di una ballerina dipinta su un muro grigio, la vita di fratel Biagio ha portato ristoro alla vita quotidiana di tanti che ne hanno incrociato i passi: in lui molti hanno potuto scoprire che il vicino del Regno è concreto, che il mentre si fa realtà del quotidiano e che il subito dell’amore non ammette ritardi. La pesca da strumento di lavoro per sopravvivere ad arte del vivere e del donare vita. Tutti noi siamo dotati di qualche strumento con il quale cerchiamo di procurarci lo stretto necessario per sopravvivere, gli strumenti della nostra pesca quotidiana, ma dimentichiamo con troppa facilità che nelle nostre vite c’è molto di più.

Il fugace sguardo rivolto ad un’immagine dipinta in un parcheggio, può farci riscoprire quella dimensione estetica della nostra esistenza che la chiamata di Dio vuole risvegliare: mentre ci arrovelliamo assorti tra le mille spire delle preoccupazioni quotidiane, c’è la possibilità di riconoscere subito un modo diverso di stare dentro alla vita, accogliendo l’eventualità di essere perfino migliori di quanto noi stessi immaginiamo. Il sentirci più o meno vicini alla realtà del Regno passa anche da qui: la luce che sorge per coloro che abitano in ombra di morte, illumina ogni giorno, anche nella nostra vita, sfregi che si possono rivelare opere d’arte.

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