Giustizia (di Dio)
La VI domenica del tempo Ordinario, anno A, continua la lettura del discorso della montagna, offrendoci un lungo brano (Mt 5,17-37) dove, attraverso un linguaggio forte e paradossale, Gesù sembra sovvertire la ragionevolezza di tanti nostri discorsi legati al buon senso: si parla di giustizia, di legge, anche attraverso esempi molto pratici legati alla vita sociale e famigliare, ma si contesta la consueta prospettiva che le norme segnino il limite oltre il quale non è bene sporgersi.
Gesù ricorda che con lui la legge non perde di valore, ma smette di essere uno strumento passivo che giudica e definisce i limiti: con lui la legge trova un compimento, una parola definitiva che rilancia il discorso sul piano dell’amore e della libertà.
Al cuore di questo discorso sta la fraternità, l’accogliere l’idea che per accorgerci dell’altro non sia necessario attendere di porre la vita sotto il giudizio della legge che arriva a definire il caso limite, non uccidere, ma che sia molto più efficace decidere secondo coscienza di accogliere un limite che non si sposta in avanti e che siamo noi stessi ad accogliere: l’altro non è qualcuno con cui adirarsi, né uno stupido e neppure un pazzo. L’altro è un fratello con cui costruire vita.
Il paradosso evangelico ci dice che saremo abbandonati al fuoco della Geenna, una punizione ben più grave di quella di essere posti sotto giudizio di un periferico tribunale cittadino, come nel caso di omicidio, per risvegliare in noi l’urgenza di riconoscere il dono dell’altro prima che sia troppo tardi. Se la nostra giustizia non si apre a una prospettiva differente da quella degli scribi e dei farisei, o meglio, se la nostra giustizia non accetta di aprirsi alla prospettiva del Vangelo, avremo sempre bisogno di leggi chiare e distinte che traccino il limite da non oltrepassare. Saremo però incapaci di cogliere le potenzialità vere e piene del nostro essere in relazione.
Dietro al ritornello del avete inteso che fu detto agli antichi, ma io vi dico, c’è tutta la potenza esplosiva della novità che il Vangelo è venuto a portare.
La fatica di riconoscere che in noi c’è uno scandalo che ci impedisce di vivere liberamente da fratelli, chiede di essere fatta: è la condizione necessaria per poter camminare nella verità, ecco perché la parte del brano che sembra essere più paradossale e irrealizzabile, in realtà è quella più vicina alla vita di ciascuno. Tagliare una mano o cavare un occhio è il compito chiesto a tutti e che riguarda la vita in tutte le sue forme: c’è un peccato con il quale bisogna smettere di avere a che fare se si vuole iniziare a crescere in umanità. Svilire l’altro per innalzare noi stessi, vedere attorno a noi nemici a cui chiedere conto, sono tutte facce della stessa medaglia che si accontenta di splendere del nostro egoismo e del nostro desiderio di affermazione.
L’invito a recuperare un parlare sobrio e chiaro, necessario a semplificare il rapporto con Dio e con i fratelli, diventa una proposta attraverso cui passare ad una nuova forma di giustizia.
Non siamo neppure capaci di realizzare la giustizia degli uomini, quella fatta di precetti fondamentali da non mettere in discussione e da non oltrepassare, eppure il Vangelo rilancia con una proposta ancora più impegnativa che chiede addirittura di rinunciare a quella parte di noi che sembra avere spesso il sopravvento: una giustizia fatta su misura per noi, che tenga soltanto conto delle nostre esigenze.
Il Vangelo non si accontenta di proporci quello che la logica potrebbe riconoscere come sufficiente. Ci sfida a crescere, ci invita a guardarci attorno e a riconoscere che una giustizia senza amore e carità rimane muta e insignificante. Non ci possiamo accontentare di una prospettiva umana che pensa alla legge come ad un limite da non oltrepassare, salvo poi, trovare continuamente eccezioni a cui appellarsi per giustificare ogni cosa, anche le più atroci e barbare. Siamo spinti a vivere un di più che si appella alla nostra libertà e alle nostre convinzioni, un di più che riconosce nella fraternità l’unico limite possibile ad ogni nostra scelta e decisione.
La vita è già piena di realtà difficili e spesso drammatiche: bastano gli eventi naturali come il terremoto in Turchia a ricordarci la dimensione di fragilità e di limite a cui siamo sottoposti. Di fronte allo sprigionarsi delle forze terribili e incontrollabili della natura non possiamo appellarci alla giustizia degli uomini che porterebbe a sindacare sugli aiuti da assegnare a seconda delle simpatie politiche. Dovrebbe esistere soltanto la risposta della fraternità che spinge a realizzare una giustizia nuova che sappia costruire confini nuovi. Sappiamo che la risposta della giustizia umana è sempre parziale e deficitaria, per questo di fronte alle tragedie della vita è fondamentale iniziare a dare risposte differenti, ad accogliere la sfida del Vangelo, quella sfida che investe ancora sulla nostra umanità, credendola capace di fare un salto di qualità che, francamente, spesso pare impossibile.
Alla terribile realtà delle terre di confine tra Turchia e Siria, oggi, dobbiamo guardare riconoscendo il martirio di una popolazione stremata e schiacciata prima dalla guerra e poi dal terremoto: un pianto straziante che si leva dalle pieghe della terra e che con drammatica e agghiacciante lucidità ci sbatte davanti agli occhi non solo il dramma della sfortuna, ma anche tutta l’inconsistenza di una giustizia umana che non si realizza mai. Tanto vale pensare davvero a una strada alternativa: la giustizia nuova di Dio, quella che non si accontenta più di definire cosa non si deve fare; quella che ha la pazienza di scegliere finalmente cosa decidere di fare per il bene degli altri riconoscendoli fratelli.