Dammi tre parole (fede, speranza, carità)
Cosa significa, oggi, per un credente celebrare la Pasqua?
Tornare alla radicalità dell’esperienza cristiana, che non vuol dire, come pensano alcuni, recuperare forme del passato. Vuol dire, invece, guardare al futuro lasciandosi illuminare dalla fede, dalla speranza e soprattutto dalla carità.
Dalla fede di Gesù che, nonostante tutto continua a credere nel Padre anche se sente di essere stato abbandonato, prima nel Getsemani e poi sulla croce. La fede di chi, anche di fronte ai discepoli che continuano a tradirlo, non smette di farsi servo, lavando loro i piedi. La fede di un Dio che non smette di credere nell’uomo e di un uomo che non smette di credere in Dio: di questo hanno bisogno gli ultimi, in particolare coloro che oggi dicono di non credere più a niente o che pensano sia sufficiente credere in qualcosa di certo, almeno nella propria testa, per darsi la spiegazione di tutto e non affogare nell’incerezza della vita.
Ci dobbiamo lasciare illuminare dalla speranza dell’uomo sulla croce, che, sentendo di avere ancora un soffio di Spirito, non esita a consegnare un ladro al paradiso, la madre al discepolo amato e viceversa e tutti coloro che non sanno neppure cosa stanno facendo alla misericordia di Dio: di questo hanno bisogno coloro che vedono la vita come la fine di un tunnel da cui però non si può uscire. Di questo hanno bisogno gli ammalati che vivono la solitudine, le vittime delle tante violenze quotidiane, i disperati che non trovano un lavoro e una casa o non li hanno mai avuti. La speranza che le cose cambino, certamente, ma anche quella che la propria vita non sia abbandonata a se stessa, la speranza di sentirsi finalmente consegnati a qualcuno.
C’è ancora chi parla dei profughi in Siria, dei terremotati in Turchia, dei disperati del Congo? Chi si ricorda più di quello che sta accadendo in Nicaragua? Ma poi, abbiamo anche solo una vaga idea di quante persone stiano davvero morendo nella guerra in Ucraina? Con grande facilità ci dimentichiamo dei crocifissi della storia: volgiamo lo sguardo rapidamente ad altro, perché il dolore dell’altro ci ricorda la nostra fragilità, la nostra inconsistenza e soprattutto il fatto che anche noi, prima o poi, soffriremo. Guardando all’uomo del venerdì santo, la nostra speranza è messa alla prova: fino a dove siamo disposti a spingerci, quale livello di incoscienza siamo pronti a raggiungere pur di negare a noi stessi che la morte è la questione seria della vita? Da come Gesù muore sulla croce il centurione capisce realmente che lui è il figlio di Dio: morire senza disperare è il segno che ci viene lasciato per curare quotidianamente le tante morti che dobbiamo attraversare.
C’è poi la luce del silenzio del sepolcro: l’abbraccio della terra al suo Signore, il silenzio del sabato. La carità di Giuseppe che mette a disposizione il sepolcro, la carità delle donne che vogliono ungere il Signore e dare dignità al corpo martoriato del loro amico e maestro. La carità che tutto copre, tutto sopporta: quella di chi non si lascia tormentare dalla vendetta, di chi accoglie il perdono come unica possibile misura delle relazioni. La carità di chi ricambia il male con il bene, di chi continua a servire i fratelli e le sorelle senza aspettarsi nulla in cambio. La carità del Padre che risuscitando il Figlio ci mette in condizione di poter ricevere lo Spirito ed essere salvati anche noi. L’amore di Dio che non si rassegna di fronte alla morte e al peccato, continuando a riproporre, per tutti, possibili vie di salvezza che intrecciano tutte la storia potente e unica di quei tre giorni che ha rivelato al mondo che non si può vivere senza fede, speranza e carità.
L’essenza di questo Triduo e della Pasqua che celebriamo ogni anno sta nel capire come essere anche noi parte di questa storia per dare un significato vero alla parola resurrezione.
Buona Pasqua.