Buono come il pane
La festa del Corpus Domini, che celebriamo questa domenica, sembra per certi versi anacronistica. L’attenzione al corpo e al sangue di Gesù ricorda le quaestiones dei teologi medioevali sulla transustanziazione, ragionamenti che segnano una certosina differenza tra “specie” e “sostanza”, ma che, in fin dei conti, hanno un impatto minimo – per non dire nulla – nella nostra vita quotidiana.
E questo è, a ben pensarci, un po’ bizzarro. Mai come in quest’epoca, infatti, viviamo una forte attenzione a ciò che mangiamo e beviamo. Forse anche eccessiva. Da qualche tempo mi voglio mettere a dieta. Ben inteso: una moderata dieta, stile “minimo sforzo massima resa”. Una classica dieta da frate, insomma. Lo faccio per motivi che mi illudo essere “pastorali”, cioè per poter seguire agilmente i giovani e i ragazzi nei campi estivi e di cammino che stanno per arrivare. Come ogni bravo ignorante, apro YouTube, mi sento improvvisamente più edotto, e cerco qualcosa.
Non l’avessi mai fatto. Mi assale e mi soverchia un mare di video estremamente specifici. Non si parla di “mangia un po’ meno questo” o “stai attento a questo alimento” o anche “fai un po’ di più questo sport specifico”. No. Si parla di “equilibrio carboidrati/proteine”, “movimenti aerobici e anaerobici”, “livello glicemico”, “trigliceridi di un tipo (che è totalmente diverso da un altro)” e così via.
D’accordo, io sono ignorante. Ma il proliferare di video di cucina, di fit-food e compagnia danzante mi fa pensare che oggi siamo davvero attenti a ciò che mangiamo. Non solo in termini puntuali e oggettivi (ciò che ho nel piatto), ma anche di provenienza (da dove viene ciò che ho nel piatto). Allevamenti, macelli, agricoltura sostenibile, consumo locale, orto biologico, biodinamico…
Al netto di eccessi squisitamente ossessivi, mi sembra una tendenza bella. Credo sia un segno di attenzione al creato – in mezzo al quale, proprio al centro, ci siamo noi stessi. Ma perché non riusciamo spesso a trasportare questa attenzione alla nostra vita interiore? Perché non facciamo caso a ciò che “mangiamo” nei termini di letture, visioni, discorsi? Siamo davvero così ciechi da appiattire l’essere umano alla sua dimensione puramente animale? Certamente questa c’è, ma dire che è l’unica è un pericoloso riduzionismo che, alla sua radice, svela una certa disperazione anti-umana.
L’innamoramento può essere spiegato con un discorso sulla produzione endocrina nel nostro corpo. Ma essa non spiega la fedeltà, come si possa restare accanto a qualcuno “nella buona e nella cattiva sorte”. Un discorso puramente finanziario può spiegare l’esigenza e la difficoltà di un lavoratore o di una famigia di trovare un appartamento. Ma non può esaurire in questo modo ciò che significa il suo desiderio di futuro, la sua progettazione per una vita che sia sua – e sua soltanto.
Le nostre varie crisi sociali ed economiche sono spesso radicate in una profonda crisi interiore, a livello comunitario o personale. Allora la domanda emerge pressante e urgente: come curiamo questa dimensione? Cosa le diamo “da mangiare”?
Forse la proposta scandalosa di Gesù, di mangiare la sua persona, cioè la sua relazione con il Dio vivente, con gli altri, il suo stile di ascolto e di perdono, la sua tenacia per un sogno grande… Forse mangiare tutto questo, farlo entare in noi e assimilarlo perché diventi un motore di vita – e Gesù non parla mai di sopravvivere, ma sempre e solo di vivere –, forse non è una proposta stupida.
Mangiare di lui – “buono come un pezzo di pane” –, al di là dell’aspetto specifico sacramentale, significa ascoltare le nostre profonde esigenze interiori, il nostro bisogno di crescere come autentici uomini e donne, capaci di godere della dimensione più bella e misteriosa della vita. Quella che non si può toccare.