Tifare la complessità della vita
Ogni giorno, appena alzati, ci sembra di essere gettati in un mondo sempre più lacerato e diviso: abbiamo la percezione che anche le nostre vite, nel loro piccolo, respirino l’aria malsana di questa situazione. Una situazione che non sembra occasionale, anzi, pare essere diventata del tutto strutturale.
Sarebbe superficiale credere che la complessità non sia parte della vita, ma questo non vuol dire che debba essere attraversata con un costante sentimento di inadeguatezza che porta a vivere la propria esistenza pensando di essere abbandonati a noi stessi. Per farci forza ci sembra naturale affrontare i problemi uno alla volta, facendo un po’ di ordine e, se possibile, semplificando le cose in modo da vederci un po’ più chiaro: abbiamo bisogno di fare così per evitare di rimanere schiacciati dal peso della realtà che ci sembra sempre più contraddittoria. Abbiamo in noi un innato desiderio di ordine che però rischia di diventare un’esigenza fuorviante: dall’ordine si fa presto a passare all’eccesso di semplificazione e spesso alla superficialità che banalizza il reale riducendolo a una proiezione dei nostri mondi interiori. Dove sta l’equilibrio e il modo giusto di stare dentro alla inevitabile complessità della vita? Il vangelo di questa XXX domenica del tempo ordinario, anno A (Mt 22,34-40), ci offre una prospettiva importante rispetto alla domanda che ci siamo posti.
Gesù viene interrogato da un dottore della legge su quale sia il grande comandamento: gli viene chiesta una sintesi impossibile sulla legge di Dio, visto che la legge per essere capita va approfondita e studiata, rielaborata e adattata alla vita, come ben sapevano i farisei, che ne avevano ricavato una fitta rete di precetti adattabili a tutte le circostanze. Dopo essere stato sfidato su questioni di ogni genere, Gesù viene messo all’angolo sulla questione decisiva per la fede di Israele: il ruolo della legge. Tutto deve essere normato per essere sicuri che nel rapporto con Dio e gli altri tutto venga vissuto al meglio senza commettere errori. Tutto viene ridotto a casi precisi che definiscano con chiarezza cosa deve essere fatto e cosa non possa essere fatto: in questo modo la vita si semplifica, ma la banalizzazione del quotidiano, frutto dell’eccesso di norme, diventa il terreno di cultura in cui è estremamente facile che il male possa attecchire.
Gesù, con la sua sintesi poderosa, ci richiama alla necessità di leggere la vita a partire da un principio unificatore e non secondo schemi che dividono e parcellizzano: la legge serve perché ci richiama, in tutte le sue forme, al principio dell’amore che presiede ad ogni possibile scelta e decisione. La complessità del vivere può essere affrontata soltanto a partire da qui, dalla domanda decisiva e definitiva su cosa tenga insieme la nostra vita. Porsi questa domanda non vuol dire banalizzare o impoverire la nostra esistenza, al contrario, vuol dire creare le condizioni per starci in maniera creativa e vitale.
Il cuore della legge, per Gesù, è soltanto uno: la relazione con Dio che si misura sulla capacità di intessere relazioni di amore con il prossimo. Da qui prende senso e valore tutto il resto.
Primo e secondo comandamento sono simili perché parlano di relazione: sono un unico principio attorno cui riposizionarsi continuamente per attraversare con frutto la complessità del reale. Serve a poco schierarsi da una parte o dall’altra, sperando di avere risposte certe sulla vita, se si perde di vista il polo di riferimento dell’amore. Dove non riusciamo a fare sintesi nella nostra vita o nella storia del mondo attorno a questa proposta di Gesù, scadiamo in un approccio banale alle cose, finiamo per scegliere solo in base a criteri di pancia, smettiamo di essere persone libere e diventiamo tifosi che pensano di amare la propria squadra, ma che in realtà finiscono solo per odiare le altre.
Dal 2016 esiste un movimento tutto al femminile che unisce donne palestinesi e israeliane: insieme chiedono la pace per i propri popoli, chiedono che i loro figli smettano di essere carne da macello di un contesto di guerra che in questi mesi si è acutizzato in maniera drammatica, ma che da decenni non smette di essere fomentato da una lettura banalizzante della realtà. Queste donne che avevano avuto il coraggio di ritrovarsi a Gerusalemme anche ai primi di ottobre, poco prima dello sciagurato attacco di Hamas, ci mettono davanti agli occhi la forza di una sintesi potente attorno a cui richiamare il senso della vita.
Dobbiamo guardare a loro se vogliamo capire il vangelo di questa domenica: dobbiamo guardare a queste donne, straziate dal dolore, ma capaci di non cedere alla banalità del male per scegliere la complessità della vita.
Chiedere la pace vuol dire invocare il nome di Dio, che è pace, e riconoscere all’altro, come a se stessi, il diritto di essere amati.