Scommessa
Un uomo parte per un lungo viaggio e chiama a sé i suoi servi per consegnare loro i suoi beni in modo che li amministrino e li facciano fruttare, in attesa del suo ritorno. Viene consegnato a ciascuno un numero adeguato di talenti, monete assai preziose, in base alle proprie capacità: il padrone sa con chi ha a che fare e non vuole mettere nessuno in difficoltà. Questa è la scena iniziale descritta nel brano di questa XXXIII domenica del tempo ordinario anno A (Mt 25,14-30); questo il motore di una vicenda che ci porta a fare i conti con l’immagine di Dio che custodiamo nel nostro cuore.
Non dobbiamo cadere nel facile tranello dell’interpretazione moralistica di questa parabola: i talenti non sono le nostre capacità e il fatto di farli fruttare o no non ha nulla a che fare con la felice realizzazione delle più diverse inclinazioni di ciascuno. Non siamo di fronte a una pagina di qualche filosofo che invita alla piena realizzazione di sé passando attraverso il potenziamento di tutte le proprie capacità e neppure davanti ad una sorta di esortazione a vivere l’attimo fuggente con la maggiore intensità possibile.
Proprio l’inizio del racconto dovrebbe metterci sulla strada della giusta interpretazione: l’uomo parte per un lungo viaggio e consegna ai servi ciò che è suo, non perché diventi loro, ma perché lo custodiscano e lo facciano fruttare. Sappiamo bene quanto l’idea di un possesso senza responsabilità generi normalmente pagine di morte e tristezza; sappiamo molto bene, purtroppo, che la convinzione di avere tutto a disposizione porta spesso all’inganno di poter disporre a piacimento dei beni senza rendere conto a nessuno: lo vediamo ormai con ricorrente puntualità nella vicenda dei giovani calciatori che vengono coinvolti nel caso delle scommesse, evidentemente non più una vicenda legata alla debolezza di qualcuno, ma sempre più legata, in maniera sistematica, a un modo di concepire la vita e sprecarla. Quando ti metti in testa di avere a disposizione beni senza limiti e di poterne fare quello che vuoi senza rendere conto a nessuno o, come nel caso dell’ultimo servo, hai in testa la convinzione di avere a che fare con un padrone duro e cattivo, con una vita che ti chiede conto in maniera spietata di quello che fai, allora finisci per perdere tutto, finisci per sotterrare il bene ricevuto e sprecare l’intera vita. In fondo scommettere per noia e diventare schiavo del gioco non vuol dire sotterrare il talento e avere paura di accettare l’unica scommessa che valga la pena accogliere, cioè quella di essere all’altezza della vita?
Il padrone affida quello che è suo e solo quando lo avrà avuto indietro moltiplicato e messo in circolo, allora inviterà i servi a prendere parte in maniera definitiva alla sua stessa gioia: Gesù ci affida il Vangelo perché lo diffondiamo e lo mettiamo in comune con il maggior numero possibile di persone, ma ci affida anche tutti i beni della terra perché li impariamo a gestire nel nome di Dio, come amministratori saggi e non come stupidi scommettitori in cerca dell’adrenalina di un momento per sentirci vivi.
Le nostre capacità contano soltanto nella misura in cui le mettiamo a disposizione del bene ricevuto per farlo circolare e conoscere ai più: a ciascuno viene affidato quello che gli è possibile elaborare e mettere a frutto. Non ci viene chiesto l’impossibile, anzi ci viene esattamente chiesto quello che è alla nostra portata, a patto che non perdiamo di vista il compito affidato a ciascuno di come arrivare ad avere una vita felice: trasmettere e affidare a altri quello che non ci appartiene, perché diventi sempre più nostro.
Un paradosso apparente che il vangelo ci mette sotto agli occhi per farci uscire dalla logica della paura: se pensiamo che Dio sia duro ed esigente, saremo trattati esattamente in questa maniera, con durezza e senza riguardo. Verremo giudicati secondo i nostri stessi criteri: se Dio è severo alla nostra maniera, allora vale la pena vivere la vita secondo gli estremi, o nascondendosi o scommettendo su tutto, alla ricerca della gratificazione minima che viene da una vincita parziale o nascondendosi nella quiete del disimpegno e dell’apatia. Se Dio però è giusto alla sua maniera, allora, vale la pena vivere trafficando i talenti: aprendosi alla logica di chi lavora con gusto per la realizzazione del regno, sapendo che tutto ci è affidato perché apprezzandolo e condividendolo, diventiamo servi fedeli in attesa di poter essere chiamati amici per sempre. La parabola scommette sul fatto che Dio sia giusto alla sua maniera: sono disposto a scommettere su questo il mio talento?