Cuori che non dormono
Davvero paradossale l’annuncio del vangelo di questa prima domenica di Avvento dell’anno C (Lc 21,25-28.34-36): da un lato ci vengono presentati sconvolgimenti dei cieli, angoscia di popoli, situazioni che annunciano paura e morte, dall’altro ci viene detto che proprio di fronte a queste realtà è arrivato il momento di risollevarsi e alzare il capo. Addirittura viene annunciata una liberazione definitiva e vicina proprio nel momento in cui l’unica cosa certa pare essere la morte e la fine: ci viene annunciato perfino l’arrivo del Figlio dell’uomo, del Messia, in tutta la sua potenza e gloria. Come possono stare insieme queste prospettive così differenti? Il paradosso della fede sta proprio qui, nel vedere quello che gli occhi normalmente non vedono, sentire che oltre la fine c’è qualcuno che ti viene incontro e, forti di questa speranza, riprendere il cammino ancora più leggeri e liberi.
Colpisce il passaggio tra la prima parte del vangelo alla seconda, dalla dimensione straordinariamente grande degli eventi astronomici, alla percezione quasi domestica e quotidiana del cuore: di fronte agli eventi della storia che sembrano sfuggirci continuamente di mano, il vangelo ci suggerisce di ritornare al cuore, a un’attenta valutazione di quello che realmente possiamo tenere sotto controllo. Non si tratta di un invito moralistico a vivere da brave persone, ma di una preziosa indicazione per non lasciarsi andare. La paura di non essere all’altezza delle situazioni diventa spesso la ragione delle tante morti che sperimentiamo ogni giorno: il rischio è quello di chiudersi in se stessi, di ripiegare sul proprio particolare, cercando la salvezza in cose piccole in cui rifugiarsi. Facendo così sperimentiamo soltanto la perdita di contatto con la realtà e con noi stessi: aumentano gli affanni e aumentano i tentativi di cercare stordimenti che ci aiutino a sopravvivere.
Noi non siamo chiamati a sopravvivere, ma a vivere in pienezza: per farlo è necessario però riappropriarsi del proprio cuore, tornare a sentire di avere un cuore. Si tratta di darsi tempo, di vivere il silenzio, di curare il giusto distacco dalle situazioni contingenti per scegliere in che modo attendere gli eventi che riguardano la vita di ogni uomo, quegli eventi che prima o poi fanno capolino nell’esistenza di ogni creatura.
Leggendo anche solo in maniera superficiale le pagine online delle testate giornalistiche principali, colpisce l’alternarsi di notizie drammaticamente serie che riguardano la sopravvivenza dell’umanità, con notizie spacciate per serie e che in realtà trattano solo di pettegolezzi: sembra di assistere al tentativo di alleggerire il peso delle cose terribili della storia e invece, a ben guardare, si rivela il tentativo di offrire un anestetico, un ripiegamento sulle vicende piccole e private che possa aiutare tutti a sentirsi meno soli. Proprio da questo cerca di metterci in guardia il vangelo di questa domenica: non vi rifugiate in cose di poco conto, non vi accontentate di anestetizzare la vostra coscienza e di non pensare alle brutture del mondo, perché tanto, prima o poi, queste brutture busseranno anche alla vostra porta. Se vi fidate di colui che deve venire – il Figlio dell’uomo che cavalca il tempo e la storia – accettate la scommessa di tenere vivo il vostro cuore per essere pronti, al momento opportuno, a sfuggire alla morsa della paura e della tristezza.
Stare attenti a noi stessi è il compito che ci viene affidato in questo cammino di Avvento, un compito alla portata di tutti. Un compito che chiede di prendere sul serio il nostro quotidiano: l’ubriachezza, l’affanno e le dissipazioni che viviamo per sentirci meno soli, ci rendono sempre più soli; il vegliare e l’attendere, ci rendono sensibili e aperti all’incontro con gli altri, risvegliano la capacità del nostro cuore di sentire anche il battito dei cuori che ci stanno accanto.
Pregare, in fondo, vuol dire proprio questo: riprendere il contatto con la nostra interiorità e scoprire che è già abitata. Come ci ricorda un importante documento del Concilio Vaticano II, la Gaudium et spes, «la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria».
Spezzare i lacci della paura è sempre e soltanto una questione di cuori che non dormono.