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Vino da nozze
Com’è possibile che venga a mancare il vino durante una festa di nozze? Chi ha sbagliato a fare i conti? Chi doveva vigilare perché ciò non accadesse? Come evitare che la festa venga rovinata del tutto? Il racconto delle nozze di Cana che apre la serie dei segni che animeranno tutta la prima parte del vangelo di Giovanni (Gv 2,1-11), sembra prendere spunto da un fatto marginale, per consegnarci, in realtà, già il cuore dell’annuncio contenuto e sviluppato nell’intero vangelo. La seconda domenica del Tempo Ordinario, anno C, diventa l’occasione per riprendere in mano, con più attenzione, un brano evangelico così famoso da essere letto spesso in maniera superficiale e frettolosa.
Maria, la madre di Gesù, avrebbe potuto sorvolare sulle domande da cui siamo partiti, ma decide di non farlo perché sa molto bene che dietro a quelle domande se ne strutturano altre più profonde e vitali. Decide di intervenire, o meglio fa di tutto perché il figlio intervenga a salvare la festa, ne forza la mano per sollecitarne l’azione in modo che si manifesti la sua gloria e i discepoli possano credere in lui. Maria intuisce che le domande riguardanti la festa, in realtà hanno a che fare con Dio e la vita degli uomini. Intuisce anche che soltanto il Figlio può ricreare le condizioni perché la festa si realizzi in maniera piena. Maria sa che forzare l’inizio della missione di Gesù vorrà dire consegnarlo al mondo e perderlo come figlio. La risposta di Gesù, pertanto, apparentemente scostante, riflette proprio la consapevolezza che l’intervento della madre lo costringerà a iniziare una fase nuova della propria vita che segnerà un distacco doloroso dalle sue origini famigliari.
Maria, pur sapendo tutte queste cose, non indietreggia di un passo rispetto alla sua richiesta: è disposta a perdere il rapporto esclusivo con il Figlio pur di salvare la festa alla quale l’umanità è chiamata a partecipare. Infatti, in gioco non ci sono delle semplici e generiche nozze, ma quelle tra Gesù stesso e l’intera umanità, unica via predisposta dal Padre perché il mondo possa salvarsi.
Il vino che sembra mancare, in realtà, è quello che serve a mantenere vivo il rapporto d’amore tra Dio e l’umanità: Maria lo sa bene e per questo interviene con fiducia sentendo che Gesù non potrà tirarsi indietro di fronte alla missione per la quale è stato inviato: restituire gli uomini e le donne di ogni tempo alla dimensione della festa per la quale sono stati creati.
Fare quello che il Figlio dice diventa l’obbedienza, per tutti necessaria, affinché si realizzi il miracolo straordinario di una vita nella gioia. Quella gioia che viene a mancare dove ci si dimentica non solo del rapporto con Dio, in quella casa le anfore che servivano ai riti di purificazione dovevano essere vuote da molto tempo, ma anche della condivisione tra gli stessi invitati, tutti presi a consumare e a bere senza neppure chiedersi dove siano finiti gli sposi.
Gesù è l’immagine del vero sposo che va incontro alla sua sposa, l’umanità.
Nel chiedere ai servi di riempire le anfore con l’acqua c’è tutta la pedagogia di Dio: quando nella vita delle persone non sembra esserci più nulla, allora Dio suggerisce che qualcosa può essere ancora fatto, magari la cosa più semplice e banale, magari anche solo mettersi a disposizione per un lavoro apparentemente inutile. A nessuno viene chiesto l’impossibile, a tutti, però, può essere chiesto di rimettersi in moto per riempire con l’acqua le anfore. Il vino che restituisce senso alla festa non può esserci se prima non c’è un’obbedienza che ci permette di riconoscere che anche noi abbiamo un po’ di acqua da portare: solo da quest’acqua, Gesù, il vino vero, può manifestarsi come la presenza che restituisce sapore alla vita. Fare quello che ci dice ci permette di riscoprire, come accaduto ai servi, di essere parte di un processo necessario in cui ogni uomo è chiamato a fare la sua parte. Cosa può fare il semplice riempire delle anfore abbandonate a se stesse? Cosa può fare l’insistere di tante persone nella preghiera per la pace, in un contesto in cui sembra prevalere la guerra che tutto dissecca e tutto prosciuga?
Portare acqua non vuol dire avere vino: affidare la nostra acqua al Dio della gioia, vuol dire restituire l’umanità alla speranza che ci sia un vino prelibato ancora tutto da scoprire e da gustare. Non siamo noi il vino, è bene rendersene conto nella vita, ma tutti abbiamo un po’ d’acqua che possiamo decidere dove versare: credo che non sia fuori luogo sperare che in questi giorni siano sempre di più tra israeliani e palestinesi, quelli che decidano di versare la propria acqua nelle anfore della pace, ormai prosciugate da troppo tempo. Ci sarà poi bisogno di persone capaci di riconoscere la qualità straordinaria del vino che Dio ci mette a disposizione, dei maestri di tavola, affinati nel gusto delle cose di Dio, che aiutino gli altri a riconoscere che anche su piccoli e umanissimi sforzi Dio realizza cose grandi.
Se l’azione di Gesù, a Cana di Galilea, è il primo segno che manifesta il desiderio del Padre di celebrare le nozze della vita con l’umanità, allora scopriamo anche che, se crediamo in lui, il meglio deve ancora venire, perché il vino buono aspetta ancora di essere riconosciuto pienamente nella nostra vita.