La trave

La trave

Nell’VIII domenica del tempo ordinario anno C siamo messi di fronte all’ennesima pagina scomoda del Vangelo (Lc 6,39-45): scomoda perché non parla di realtà che potremmo facilmente proiettare lontano da noi, ma chiede di fare i conti con il nostro vissuto quotidiano, quello delle nostre famiglie e delle nostre comunità. Abbiamo tutti a che fare con travi negli occhi e piccole pagliuzze e sappiamo molto bene quanto sia difficile gestire quello che pure il vangelo ci chiede di fare: esprimere giudizi, correggere fratelli e sorelle che sbagliano. Viene detto chiaramente che prima è necessario togliere la trave dal proprio occhio per poter, in un secondo momento, togliere la pagliuzza dall’occhio dell’altro. Alla fine comunque un giudizio va espresso: sul proprio occhio e su quello dell’altro. La serietà dell’accoglienza reciproca e dell’amore va sempre misurata su questa pagina, perché sia reale, altrimenti il rischio è quello di vivere relazioni superficiali dove si cerca solo una qualche forma di appagamento personale, favorendo dinamiche che costruiscono comunità di superficie e senza spessore. Rendersi conto di avere un occhio ferito da cui è necessario estrarre una trave non può diventare motivo per nascondersi a se stessi e agli altri credendo che nessuno si accorga di nulla e tutti si possa continuare a vivere come sempre. Il vangelo non dice di fare finta di niente, nella speranza che anche gli altri siano comprensivi con te: una sorta di tacito accordo al ribasso per permettere a tutti di continuare a vivere nell’ipocrisia.

Il vangelo ci chiede di essere solerti nel togliere dal nostro occhio quello che non ci permettere di vedere bene, ci chiede di non essere indulgenti con noi stessi per essere capaci di esprimere valutazioni giuste nella vita, tanto giuste da potersi confrontare perfino con una pagliuzza che potrebbe affaticare la vita del fratello. Diventare alberi buoni per produrre frutti buoni, cioè valutazioni buone sulla realtà e la vita: questa la prospettiva verso cui ci vuole condurre la Parola di questa domenica. Quante parole avventate invece escono dalla nostra bocca, pensando semplicemente che basti lasciare uscire quello che abbiamo nel cuore per essere autentici. Il problema, infatti, sta proprio qui: non vigiliamo abbastanza sul tesoro del nostro cuore. Facciamo sempre più fatica a riconoscere cosa ci sia in esso e ci nascondiamo dietro al mito dell’autenticità per non affrontare la fatica di valutare con coraggio i sentimenti che lo attraversano.

L’invito a togliere la trave dall’occhio non è un invito moralistico a essere irreprensibili per diventare, in questo modo, fustigatori dei costumi altrui: si tratta, invece, di riconnettere l’occhio al cuore, di capire cioè che si vede prima di tutto con il cuore. Ma se il tesoro del nostro cuore è fatto soprattutto di cose cattive il nostro sguardo sarà cattivo e giudicante, se invece avremo un tesoro buono in noi, anche il nostro occhio diventerà capace di vedere il bene e la nostra bocca sarà in grado di emettere giudizi veri, anche se faticosi, capaci di indicare il meglio possibile. Si tratta allora di imparare a vigilare sulla nostra interiorità: lasciare tempo alla preghiera, al silenzio, all’ascolto, per riconoscere da quali sentimenti siamo abitati e imparare a saperli gestire. Se accumuliamo odio e risentimento, dalla nostra bocca uscirà questo e non altro. Se impariamo a lasciare decantare la delusione e la fatica, affidandole a chi le sa portare meglio di noi, allora ritroveremo il giusto equilibrio per rimanere nelle situazioni difficili e raccogliere elementi nuovi e positivi per il tesoro prezioso che stiamo accumulando.

Per togliere la trave dall’occhio è necessario curare il cuore: siamo sicuri che la violenza verbale di tanto dibattito pubblico, oggi, anche a livello internazionale, non venga proprio dall’incapacità profonda di prendersi cura della propria interiorità?

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