
La giustizia del padre
La quarta domenica di Quaresima, nell’anno C, presenta il brano del Padre misericordioso o come lo conoscono i più, del Figlio prodigo (Lc 15,1-32). Paradigma dei racconti al cuore del cap. 15 di Luca, ci presenta il tema del perdono dalla parte di Dio e non come lo vivono gli uomini: anzi, a essere sinceri, la figura del figlio maggiore descrive proprio tutta la fatica che gli uomini vivono rispetto alla gratuità del perdono. Le suggestioni che questo celebre racconto fa nascere nel cuore di chi lo ascolta, frutto della più genuina visionarietà di Gesù, sono talmente tante che rischieremmo di perderci. Vorrei allora affrontare solo un aspetto del rapporto tra Padre e Figlio minore, aspetto che viene posto al centro di tante riflessioni che anche oggi muovono il tema della giustizia. É giusto concedere un perdono incondizionato, che non chieda nulla in cambio: la giustizia in quanto tale non ne risulta ferita? E le vittime degli atteggiamenti sbagliati di qualcuno, non chiedono anche loro di essere tenute in qualche considerazione?
Ogni volta che si parla di presunte o reali riforme della giustizia, oltre alle rilevanti questioni tecniche, nel nostro paese si aggiunge una discussione sulle pene che va sempre nella stessa direzione: la necessità di inasprirle, soprattutto in certi casi e di renderle certe. Come a dire che una volta individuate le responsabilità, l’unica soluzione possibile sia sempre e soltanto quella di punire.
L’atteggiamento del Padre della parabola si muove, invece, secondo una linea molto differente.
Quando si ascoltano commenti alla parabola, spesso anche omelie piuttosto superficiali, si sente parlare di come il Padre dimostri tutto il suo amore nel momento in cui riaccoglie il Figlio senza neppure lasciargli il tempo di spiegarsi. In realtà il vangelo non racconta questo.
Il figlio, rientrato in se stesso, si rende conto di avere la possibilità di ritornare presso la casa del padre, ma pensa di doverlo fare come schiavo: sa di aver peccato contro il cielo e contro suo padre e di non essere più degno di essere chiamato figlio. Proprio per questo crede di meritare di essere trattato come un salariato qualunque. Quando il padre lo vede tornare da lontano gli corre incontro e al momento dell’abbraccio, in realtà permette al figlio di parlare e di pronunciare parte del discorso che si è preparato, ma non tutto. Gli lascia esprimere il suo rammarico, la sua delusione, lascia che trasformi in parole l’amarezza che lo abita e che prenda coscienza di quello che è diventato. Il passato deve essere assunto con responsabilità e infatti, quello che il figlio sta dicendo, è la verità: lui ha veramente peccato e ha veramente perso la dignità di figlio. Quello che il padre non lascia pronunciare al figlio è la seconda parte del suo discorso, quella che prevederebbe la soluzione per il futuro: trattami come uno dei tuoi salariati. Per il padre questa affermazione sarebbe inaccettabile e infatti non viene neppure accennata.
Dio vuole che ci assumiamo le nostre responsabilità: anzi chiede proprio di passare da qui per progettare il futuro, ma non un futuro fatto di punizioni come lo penseremmo noi, bensì un futuro fatto di possibilità, fatto di realtà che ci permettano di riscoprire la nostra dignità di figli rappresentata dall’abito bello, dall’anello e dai sandali. Il perdono di Dio è cosa seria e chiede sempre un’assunzione di responsabilità da cui non si può derogare. Questo passaggio di verità sulla nostra vita può essere fatto nella profondità della nostra interiorità, nel segreto del nostro cuore, ma prima o poi deve essere consegnato tra le braccia di qualcuno che ti aspetta per restituirti la tua dignità che nulla e nessuno ti può togliere, tranne che il tuo stesso peccato.
Allora è vero che non può esistere perdono senza giustizia, quella giustizia che non può prescindere da come hai vissuto il tuo passato, ma è altrettanto vero che una giustizia profonda porta al perdono e alla possibilità di essere tutti restituiti alla propria dignità originaria, perché soltanto il perdono di Dio e il tornare a lui, consente di costruire un futuro bello e buono, quello che noi non riusciamo più a vedere in certe circostanze, ma che Dio continua a sperare per ciascuno di noi.
Di questo perdono hanno bisogno tutti, anche quelli che si pensano nel giusto e che animati dal risentimento rischiano di condannarsi a una vita da schiavi, a una vita ugualmente incapace di vedere un futuro diverso, lontano da quello che si è sempre pensato di fare solo ed esclusivamente per dovere. Il padre della parabola non deve amare i suoi due figli: decide di farlo e basta, chiedendo però a entrambi di pronunciare parole di verità sulla loro vita e su quella dell’altro.