
I due malfattori
In maniera del tutto arbitraria, del racconto della Passione secondo l’evangelista Luca offerto nella Domenica delle Palme dell’anno C, scegliamo di commentare uno dei passaggi che appartiene al materiale specifico di questo vangelo: Luca si sofferma sulla figura dei due malfattori che vengono crocifissi insieme a Gesù e descrive il dialogo tra loro (Lc 23,39-43), ricordandoci che queste sono le ultime parole che Gesù stesso rivolge agli uomini, prima dell’ultima preghiera di consegna del proprio spirito al Padre. Dunque parole di perdono, parole che evocano il paradiso come possibilità che si apre per l’oggi del malfattore e per l’oggi di ogni uomo. In realtà quello che viene definito dalla tradizione come buon ladrone non è diventato buono e per questo ha ottenuto il paradiso: egli ha colto nella realtà di Gesù la mediazione necessaria al fine di riconoscere il bene, si è aperto alla relazione con chi gli ha fatto comprendere la verità della propria vita e per questo ha potuto cogliere, in quell’attimo drammatico, il bene che gli poteva essere concesso di fare e ha deciso di farlo.
Quando guardiamo al Crocifisso non dovremmo mai dimenticare la presenza dei due malfattori: il giusto modo di rappresentarlo dovrebbe sempre tenere conto di questa presenza fondamentale, peraltro segnalata in modo diverso da tutti i vangeli. Gesù è in mezzo a due reietti, a due rifiuti, fatto anche lui oggetto di scherno e deriso come l’ultimo tra gli ultimi. Questa è la posizione che ha deciso di assumere tra gli uomini e questa è la posizione che continua a mantenere ogni volta che sbagliamo il nostro modo di relazionarci a Dio e agli altri. Questa è la posizione a cui chiede di prestare attenzione se vogliamo aprirci veramente all’incontro con Dio. Guardare alla croce non vuol dire prendere parte a uno spettacolo che non ci riguarda o che ci riguarda solo in maniera emotiva: vuol dire riconoscere la presenza di Gesù tra noi e fare esperienza del bene possibile che ci viene chiesto di realizzare anche quando ci sembra di avere mani e piedi legati o addirittura inchiodati. I due malfattori sono finiti sulla croce anche a nome nostro, ci rappresentano: rappresentano quello che possiamo essere di fronte al mistero della Croce, ma anche quello che possiamo diventare davanti alla tragedia del male. Ci sfidano a fare i conti con l’idea di un Dio deludente che però rimane coerente fino alla fine; un Dio che non asseconda le nostre aspettative e proprio per questo realizza una via di salvezza universale che si apre a tutti. Se dimentichiamo che Gesù è stato crocifisso insieme ad altri uomini potremmo correre il rischio di pensarlo lontano, troppo Dio per essere anche uomo; potremmo correre il rischio di credere che la croce riguardi solo la vita di Dio e al limite la vita di uomini e donne che ci passano davanti come sul palco di un teatro, come personaggi di uno spettacolo di cui, in fondo, siamo solo spettatori. Non è così: Gesù è crocifisso tra due malfattori, in mezzo a due uomini, uomo tra gli uomini, uomo tra noi. La sua morte ci riguarda da vicino perché riguarda la vita di tutti: saliremo tutti, prima o poi, su quella croce che il Signore ci ha invitato a portare dietro a lui e lì avremo la possibilità di giocarci il nostro oggi scegliendo tra le nostre aspettative e la verità di un Dio deludente che ci ama rimanendo immobile sulla croce. In questo vangelo, Gesù non muore solo: prima di emettere lo spirito può parlare di perdono con qualcuno, può esprimere tutta la bellezza e la verità della sua umanità. Senza i malfattori non avremmo avuto la possibilità di quest’ultima e decisiva manifestazione: anche nel momento finale della sua vita Gesù vive pienamente in relazione con gli altri e proprio per questo può vivere fino in fondo la sua relazione filiale con il Padre: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».