Ognuno è santo – Mt 5,1-12
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
È molto bello che, ogni anno, la liturgia ci ricordi come la santità sia strettamente legata alla «beatitudine», cioè alla gioia. Papa Francesco lo sottolinea con chiarezza: «non avere paura della santità. Non ti toglierà forze, vita e gioia. Tutto il contrario, perché arriverai a essere quello che il Padre ha pensato quando ti ha creato e sarai fedele al tuo stesso essere» (Gaudete et Exsultate 32).
Le beatitudini di Matteo, oggi, mi ricordano due caratteristiche fondamentali della santità. La prima è che la vita non è facile. Lo sappiamo tutti, certo, ma è importante partire da qui: la nostra quotidianità è costellata continuamente da piccoli o grandi fatiche.
L’autore dell’Apocalisse, nella prima lettura, la chiama «la grande tribolazione» (Ap 7,14). Essere santi non significa, quindi, scappare in un luogo fatato, dove tutto funziona bene e siamo tutti contenti: quella non è santità, è droga. Anche qui ci aiuta papa Francesco: «essere santi non significa […] lustrarsi gli occhi in una presunta estasi» (GeE 96).
Il santo, allora, ha gli occhi ben aperti, come nelle icone antiche, dove lo sguardo dei protagonisti è spesso disegnato in maniera sproporzionata, eccessivamente grande.
Il secondo aspetto della santità che condivido oggi è quello della piccolezza: il santo sa che non ce la fa da solo. E qui la nostra immaginazione si sgretola: consideriamo il santo, normalmente, come l’uomo o la donna forte, indipendente, capace di pregare fino all’esaurimento, in grado di compiere gesti di carità fino a consumarsi.
No, il santo è colui che sa che «la salvezza appartiene al nostro Dio» (Ap 7,10), cioè che è l’amore che salva. E l’amore non è forza bruta, ma fantasia, pazienza, speranza. Non è un lanciafiamme, ma un cerino acceso.
Non si tratta allora di impressionanti gesti di altruismo (quello che un tempo, per la canonizzazione di un santo, veniva definito «l’esercizio eroico delle virtù»), ma di quotidiani gesti di gentilezza, di negazione di sé, per andare incontro all’altro.
Siamo tentati, di fronte a tutto questo, di gettare la spugna in partenza: la santità non è roba per me. «Non sono mica un santo!»: la risolviamo così e continuiamo a vivere la nostra vita nella lamentela e nell’insoddisfazione.
E se la chiamata alla santità fosse davvero universale? Se dentro di noi avessimo davvero, come ci ricordano in continuazione le scritture, un germe di santità donato con il battesimo?
La prima lettura disegna un’immagine in cui i santi sono «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare» (Ap 7,9). Ribadisce anche che i segnati per la santità sono «centoquarantaquattromila» (Ap 7,4), cioè 12x12x1000, numero simbolico che rappresenta la totalità dei popoli e la totalità dei loro abitanti.
Anche noi, quindi, siamo qui dentro. Ma questa partecipazione non sarà motivo di beatitudine e di libertà fino a quando non vorremmo effettivamente starci dentro, in una comunità chiamata alla santità, in cui ognuno è invitato a donare se stesso per entrare nella vera gioia.