Semi di futuro
Quando qualcuno vuole imparare qualcosa, si alza, si mette in movimento, e raggiunge un luogo dove crede di poter incontrare chi sarà in grado di insegnargli quello che desidera o deve imparare: ha sempre funzionato così e continuerà a funzionare allo stesso modo anche dopo questa pausa di sospensione che stiamo tutti vivendo. É nella natura delle cose andare in cerca di chi ci può aiutare a imparare e a conoscere meglio i meccanismi di un mestiere, di uno sport, di una particolare tecnica.
La conoscenza funziona in questo modo, passa attraverso la trasmissione e l’incontro.
I greci di cui ci parla il brano di Giovanni della V domenica di Quaresima anno B (Gv 12,20-33) fanno esattamente quello che ci aspetteremmo da persone desiderose di approfondire una conoscenza. Vogliono vedere Gesù e, per questo motivo, si mettono in movimento prendendo i contatti con Filippo, quello dei Dodici probabilmente più vicino alla cultura greca, visto il suo nome, e gli chiedono di fare da tramite. Individuano in Filippo, in virtù della sua prossimità con Gesù, il giusto intermediario che possa soddisfare il loro desiderio di conoscenza.
Filippo non si arroga il diritto di poter condurre da solo a Gesù, sa bene che nessuno può intestarsi questa possibilità e, a ragione, si rivolge ad Andrea e insieme portano a Gesù la richiesta che hanno ricevuto: da soli non possiamo ottenere quella conoscenza di Dio che si rivela in Gesù, perché l’incontro decisivo con lui passa sempre, in forma mediata, attraverso l’esperienza della Chiesa e della comunità.
Pensare di conoscere Dio solo in virtù della nostra sensibilità e a partire da una qualche specifica abilità personale è una delle più grandi illusioni della modernità, che continua a trascinarsi anche nel nostro tempo. Perché Gesù possa manifestarsi ai nostri occhi c’è sempre bisogno che chi lo ha conosciuto prima di noi ce lo renda accessibile; c’è bisogno di quella forma comunitaria, fatta di passaggi e lente chiarificazioni che il Signore stesso ha scelto come via ordinaria per parlare di sé. Se non ci fosse questo tipo di filtro, la rivelazione della sua gloria sarebbe difficilmente comprensibile e, forse, perfino urtante se consegnata esclusivamente alla nostra sensibilità personale.
Se non ci fosse la mediazione di chi ha già sperimentato che è possibile seguire Gesù, l’immagine del chicco di grano che muore per portare frutto rimarrebbe incomprensibile e perfino inaccettabile.
Noi cerchiamo tutto quello che ci fa vivere e, come rabdomanti impazziti, andiamo in cerca di forti emozioni per sentirci vivi e per riuscire a raccontare a noi stessi che siamo gli unici costruttori delle nostre fortune. Ma la realtà di ogni giorno ci mette davanti a una continua insoddisfazione, a una ricerca che non trova compimento semplicemente perché totalmente ripiegata su di sé, incapace di rivolgersi all’esterno, agli altri, all’altro.
Gesù ci ricorda, a chiare lettere, che una vita destinata a portare frutto è una vita che sa accettare la dimensione della morte, della fine, ma anche quella della custodia e della consegna per produrre frutto. Chi ama la propria vita e fa di tutto per conservarla, cioè per trattenerla, rimane solo: finisce per cercare ogni risposta alle domande della vita in sé, in quello che sente e percepisce; si fa unica misura del mondo, per scoprire un po’ alla volta di essersi rinchiuso nel proprio piccolo e insignificante mondo.
Il seme che muore, cioè che dà tutto se stesso, genera vita, la possibilità che la vita sia trasmessa ad altri. In questo modo possiamo conoscere Gesù e la sua gloria, quella gloria che porta direttamente a Dio e che viene confermata dalla voce del Padre.
Lo stile del seme dovrebbe essere la carta di identità delle nostre comunità cristiane: uno stile difficile da accettare, uno stile che ci chiede di saper morire a noi stessi, alle nostre tradizioni e alle nostre abitudini, se ce ne fosse bisogno, per consegnare la nostra vita alla terra e alle nuove generazioni: da soli non possiamo accettare questo stile che va contro la nostra naturale sensibilità, ma insieme, come comunità, possiamo ancora aiutarci a fare risplendere la gloria di Dio attraverso il servizio reciproco e la convinzione, che può essere solo frutto della fede, che si trasmette davvero qualcosa solo quando si è disposti a lasciarla.
La notizia di oggi viene dalla fatica che le nostre comunità e la Chiesa tutta stanno attraversando: siamo turbati, perché abbiamo paura che il nostro mondo stia finendo, ma questo stesso turbamento, ci dice il Vangelo, è stato vissuto anche da Gesù di fronte alla possibilità di dover consegnare la vita. Forse dovremmo essere preoccupati che un po’ della straordinaria consapevolezza di Gesù diventi anche la nostra.
Gesù capisce di essere venuto per realizzare esattamente l’ora del seme che si consegna e muore e riconosce essere questo l’unico modo per dare davvero gloria al Padre, cioè per realizzarne il progetto di salvezza.
Dovremmo imparare ad accettare il turbamento di questa nostra ora e a chiedere di non consegnarci a una malinconica chiusura in noi stessi. Dovremmo riconoscere che è proprio ora il momento di lasciarci attirare da colui che si è lasciato innalzare per noi. Dovremmo accogliere, ora, la logica del seme per imparare a dare corpo a immagini che parlano di frutti per il futuro e non di putrida morte per il nostro presente.