L’uva dalla vita

L’uva dalla vita

Solitamente si ritiene che il Vangelo di Giovanni sia quello più difficile perché spesso allusivo, simbolico, espressione di un raffinato pensiero teologico, ma si dimentica che il suo linguaggio è quasi sempre molto chiaro, diretto e ricco di immagini concrete, proprio come nel brano che ascolteremo domenica (Gv 15,1-8).

L’immagine della vite, cara alla cultura mediterranea, è il cuore della narrazione che Gesù utilizza per parlare del rapporto che in lui si realizza tra il Padre e i discepoli: Gesù è la vite, il Padre l’agricoltore che pota e i discepoli i tralci che devono essere potati per portare frutto.

Il discorso appare in tutta la sua chiarezza e fila via secondo una logica che non può essere messa in discussione. Il tralcio è vivo soltanto se rimane innestato nella vite, altrimenti viene gettato via e secca. La possibilità di generare frutto dipende solo ed esclusivamente da questo radicamento.

Per essere ancora più chiaro, Gesù insiste sul fatto che senza di lui non possiamo fare nulla, cioè non possiamo realizzare niente che sia secondo la logica del Vangelo, mentre probabilmente realizzeremo molte cose secondo altre logiche che ci porteranno a scoprire quanto la vita possa essere amara e desolante: chi è nato per essere tralcio e pensa di poter fare da sé, finisce per sperimentare una potatura che non viene dall’agricoltore.

La mano sapiente di chi cura la vigna sa cosa sia necessario tagliare perché la pianta si rafforzi e raggiunga il suo massimo vigore. Un tralcio che pensa di poter vivere di vita autonoma è destinato a seccare, a essere gettato via per venire bruciato, non può resistere da solo agli eventi della vita.

La questione centrale in questo Vangelo sembra essere quella del radicamento: dove si collocano le radici della nostra vita per permettere di realizzare quello a cui siamo destinati?

Portare frutto è nella natura di ogni pianta, ma è anche nella natura di ogni uomo: scoprire la dimensione generativa della vita è il segreto della vita stessa e, come ci viene ricordato, la felicità stessa di Dio consiste nel fatto che l’uomo continui a partecipare all’azione creatrice attraverso il frutto della propria vita: naturalmente non si parla solo della dimensione biologica, pur fondamentale, ma anche di quella creativa, relazionale, emotiva e spirituale.

Il Padre viene glorificato dal fatto che i discepoli di Gesù, rimanendo innestati in lui, accettino di essere potati per diventare sempre più generativi: questo, in fondo, vuol dire diventare davvero suoi discepoli. La logica della potatura ha senso solo dove ci sono radici e la pianta è solida.

In questi giorni mi ha colpito una di quelle notizie secondarie che di solito passano inosservate e che sono utilizzate come riempitivo. Potremmo quasi dire una notizia apparentemente inutile rispetto alla matassa travolgente di cose serie che costantemente ci viene srotolata davanti agli occhi ogni giorno.

L’ormai anziano custode dell’isola di Budelli, nel nord della Sardegna, unico abitante di questo piccolo angolo di paradiso, è costretto a lasciare la sua isola in conseguenza della decisione, da parte dell’ente parco della Maddalena, di ristrutturare il capanno in cui ha vissuto per 32 anni.

Quello che mi ha sorpreso di questa vicenda è il fatto che nelle parole di commiato da un’esperienza così radicale di solitudine e di stretto contatto con una natura incontaminata e stupenda, ma anche selvaggia e matrigna, non prevalesse una forma di protesta nei confronti di chi in fondo lo stava sfrattando. Appariva invece una sorta di gratitudine diffusa rispetto all’esperienza vissuta, una sorta di riconoscenza verso quella terra che, permettendogli di mettere radici, gli ha consentito di ritrovare le proprie radici. Ammettendo la fatica di una vita solitaria e sottoposta a continue potature, quest’uomo sembra aver accettato il proprio limite: ha capito che non ce l’avrebbe più fatta a vivere in piena solitudine e ha deciso di porre fine all’ esperienza di vita sull’isola.

Nelle sue parole mi è parso di cogliere il malessere nei confronti dell’istituzione che non gli ha permesso di continuare la propria esperienza, ma anche e soprattutto l’accettazione consapevole di una situazione che non avrebbe comunque cambiato la sostanza delle cose: il suo grande amore per l’isola di Budelli e per una natura incontaminata che gli ha permesso di scoprire la sostanza delle cose che va oltre la superficie.

La conclusione è davvero interessante: continuare a raccontare la bellezza di un luogo e di un’esperienza anche se non si può più viverla, attraverso la testimonianza, le immagini, i social, perché altri possano apprendere quello che lui ha fatto proprio.

Da una potatura così radicale si possono continuare a produrre frutti perfino a ottantadue anni se si è scoperto dove sono le proprie radici.

Il racconto quasi poetico di questa vicenda, totalmente ai margini della storia, mi pare un bel commento a quello che il Vangelo ci mette davanti con estrema chiarezza: tanta dell’insoddisfazione che viviamo, anche come credenti, proviene dalla mancanza di radici. Crediamo di poterci dire cristiani perché facciamo e diciamo determinate cose, ma appena sperimentiamo una qualche forma di potatura, anche leggera, viviamo nel risentimento e nella delusione, perché, in realtà, viviamo come tralci che, pensando di essere liberi, non accettano di rimanere in lui. Spesso non sappiamo cosa chiedere perché non crediamo che si realizzi davvero, ma soprattutto perché non lasciamo che le sue parole ci aiutino a scorgere quello di cui abbiamo bisogno.

Dovremmo tutti passare qualche anno su un’isola deserta per imparare a leggere il bello al di là della superficie delle cose e scoprire che il Signore Gesù è la vite vera a cui rimanere attaccati, perché il bello della vita è portare frutto ad ogni età.

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