Scogli e maree – Gv 15,9-11
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:
«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore.
Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.
Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena».
Quando Gesù sceglie il verbo «rimanere» per parlare del rapporto che i discepoli devono avere con lui e con il Padre, ci crea un bel grattacapo. Certamente è un verbo forte, tanto caro alla tradizione giovannea. Indica non solo collaborare, o seguire, o obbedire, ma qualcosa di più profondo.
E noi, puntualmente, fraintendiamo. Perché nel rimanere c’è il sapore della staticità, quasi dell’immobilismo. Mi viene in mente la cozza attaccata allo scoglio contro la forza delle maree. Spesso, infatti, questi versetti sono stati utilizzati dagli apologeti cristiani per contrapporre il Regno di Dio al “mondo”, tutto ciò “che sta fuori”, che tende a staccarci dall’amore di Gesù e del Padre.
Non ci stupiamo, allora, di tanti rigurgiti tradizionalisti estremi, dentro e fuori la Chiesa. In essi si avverte, spesso, non tanto la fedeltà a una tradizione amorevolmente trasmessa, ma la paura di confrontarsi con pensieri e opinioni differenti, che possono in qualche modo distrarci, “staccarci” dallo scoglio sicuro delle certezze.
Mi piace pensare che il «rimanere nell’amore» di cui ci parla Gesù comporta una fedeltà più dinamica, più creativa. Se non fosse così, perché il dono della libertà e della fantasia? Come ogni papà, così forse anche Dio Padre vuole in un certo senso essere stupito da noi, suoi figli.
E, come ogni papà, è felice e orgoglioso quando impariamo a nuotare e ci stacchiamo, emozionati e curiosi, dallo scoglio delle nostre paure.