Germogli

Germogli

La tendenza al catastrofismo oggi è particolarmente frequentata, spesso anche con buone ragioni se si pensa alla situazione climatica e all’elenco di disgrazie che quotidianamente fa capolino sulle prime pagine degli organi di informazione. Viviamo tutti la percezione di trovarci alla fine di qualcosa: sentiamo pressante l’angoscia di un tempo che passa e che non lascia intravedere prospettive future.

Tale angoscia, più normale negli adulti e nei vecchi, sta diventando cifra costitutiva dell’identità dei più giovani. L’effetto rischia di diventare dirompente: la generazione che per antonomasia dovrebbe coltivare la speranza come motore personale e sociale, rischia di vivere una forma di ripiegamento generalizzata che trova espressione in uno stato di protesta continua o nella più totale apatia nei confronti di tutto quello che riguarda le forme del vivere sociale.

Se tutto è destinato a finire, perché investire nella vita? Perché creare legami duraturi e profondi, perché pensare di mettere su famiglia e magari mettere al mondo dei figli?

Non vale piuttosto la pena divertirsi in maniera sfrenata, sfruttare le occasioni, vivere alla giornata o sfogare il proprio risentimento in maniera eclatante? Dunque, tra il totale disimpegno e la protesta continua non ci sarebbe nessuna alternativa?

Il Vangelo di questa domenica (Mc 13,24-32) utilizza espressioni apocalittiche che fanno chiaramente riferimento alla prospettiva ultima e definitiva sulla vita dell’universo, ricordandoci una dimensione propria di tutto ciò che è creato e cioè che tutto avrà una fine, ma secondo una logica che non vuole alimentare paura: l’immagine del Figlio dell’uomo che viene sulle nubi con grande potenza e gloria, ci ricorda che, nella visione cristiana, il mondo è destinato a finire ma non nel nulla. La vita personale di ciascuno, come la realtà ultima della creazione, è destinata a vivere un incontro che saprà ricapitolare ogni cosa per restituirla a una forma piena dell’esistenza.

La speranza cristiana parte proprio da qui, dalla costatazione che una vita senza una direzione, senza la possibilità di un incontro, è destinata a essere preda dell’angoscia.

Molto difficile, però, alimentare la speranza se tutto quello che hai attorno fa cadere i tuoi occhi su realtà di morte. Da dove partire allora per reagire a questa situazione?

Dalle parole che non passano, dalla Parola di Dio che, nonostante il mutare dei tempi e delle condizioni, accompagna la storia degli uomini con discrezione e fedeltà. La promessa di Gesù che vi sia una parola che non passa è sotto i nostri occhi e solo chi è in malafede potrebbe non vederne la realizzazione: attraverso le culture, attraverso i passaggi più oscuri della storia degli uomini, nonostante la fatica e la povertà manifesta della Chiesa, la Parola non cessa di essere presente e di interrogare il cuore degli uomini.

Perché una speranza possa essere davvero tale, ha bisogno di ancorarsi a un saldo punto di partenza: per ogni credente e per ogni comunità cristiana, quest’àncora è la Parola, non possono essercene altre.

Ripartire ogni giorno da qui consente di avere un rapporto diverso con la quotidianità, di saper leggere quei piccoli segni di vita, il germoglio sul ramo di fico, che segnano la via come le briciole delle favole.

Imparare dalla pianta di fico vuol dire rimettere a posto le cose, recuperando una prospettiva più corretta sulla vita e un modo forse anche più efficace di costruire una giusta lettura del nostro futuro personale e collettivo. I germogli che ci aiutano a riconoscere i segni dell’estate non sono la concessione a una facile consolazione in una vaga speranza. Siamo di fronte all’invito a vivere responsabilmente, riconoscendo il ruolo insostituibile del nostro presente come occasione unica e irripetibile per orientare la nostra vita.

Colui che ci viene incontro non vuole semplicemente restituirci una vita cristallizzata in un possibile stato di benessere in cui le cose stanno più o meno in equilibrio: vuole offrire un compimento a tutti i cammini degli uomini, perché in lui tutti possano avere la possibilità di realizzarsi in pienezza.

L’incessante ritorno di millenarismi di ogni genere porta costantemente a fare i conti con l’idolo della fine: consegnare la propria vita a quest’idolo è quanto di più lontano ci possa essere dallo spirito del Vangelo.

Gesù è esplicito nel ricordarci che soltanto Dio è il custode di un tempo che a noi viene messo a disposizione perché non lo sprechiamo in inutili elucubrazioni sulla fine di una realtà che, comunque, arriverà per tutti. Le catastrofi continueranno a incrociare il percorso della storia degli uomini, ma il credere che siano la fine e il fine di questa storia porta soltanto a generarne di nuove e sempre più devastanti, allontanandoci dalla possibilità di godere la bellezza del vivere il presente con speranza, senza rinunciare alle nostre responsabilità.

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