In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro:
«Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato.
Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».

L’esperienza cristiana asseconda le armoniche dell’estetica più che quelle dell’etica. L’evento di Cristo nella propria vita reca la tenerezza dell’abbraccio, il sentirsi letti amorevolmente da uno sguardo, il calore di una carezza sulla guancia, l’ascoltare il proprio nome come nessuno mai l’ha pronunciato prima, la certezza di poter oltrepassare il guado della propria miseria senza che Lui molli la nostra presa. Chi è toccato da questo amore non può che raccontarlo al mondo.

È questa l’esperienza di Paolo che, una volta accolto il suo vero nome, quello che Dio ha pronunciato sin dall’eternità, inizia a cantare con la sua vita la gioia di questo incontro, incurante delle dolorose prove a cui la sua missione lo sottoporrà.

La festa della Conversione dell’apostolo delle genti (per noi oggi) per tutti noi discepoli di Cristo è una buona occasione per fare verifica della nostra fame di annuncio dell’amore di Dio, amore nel quale siamo stati generati e sempre rigenerati. Se, malauguratamente, dovessimo scoprirci proclamatori anoressici forse è perché stiamo credendo più ai nostri demòni che alla potenza dello Spirito Santo, più alle lingue che caoticamente ciarlano in noi che alla Parola che ordinatamente crea, più ai serpenti che ci mentono che alla Verità che ci rende liberi, più al loro veleno che all’antidoto che è il Vangelo, più alla malattia che conduce alla morte che alla guarigione, pegno della vita eterna.