Le reti vuote

Le reti vuote

Ogni storia di vocazione che si rispetti ha inizio da un vuoto, da un’assenza, da una mancanza: per quanto possa sembrare paradossale è questo che mette in moto un vero cammino di ricerca. Non sono le qualità che abbiamo, i numeri o le capacità che ci dicono verso quale futuro dobbiamo indirizzarci, ma è la consapevolezza che ci manca qualcosa a diventare il vero motore di una sana ricerca interiore e di un approccio vero alla vita e al futuro. Quando scopriamo senza inganno che quello che abbiamo non ci basta, allora diventiamo disponibili a rimetterci in cammino, più sensibili ad accogliere le domande vere che la vita ci pone continuamente. Questa quinta domenica del Tempo Ordinario ci mette davanti la storia di vocazione dei primi discepoli, raccontata dall’abile penna dell’evangelista Luca (Lc 5,1-11), una storia che ha proprio inizio di fronte a un grande vuoto, quello delle reti che Simone, insieme ai suoi compagni, sta lavando dopo una notte di duro ma infruttuoso lavoro. La delusione di una pesca andata a vuoto, di una giornata persa senza alcuna possibilità di guadagno, avrebbe potuto spingere all’accettazione passiva di una condizione particolarmente sfavorevole e invece diventa l’irripetibile occasione per dare credito ad una proposta nuova e inaspettata.

Trasformare la delusione di un fallimento, la messa in discussione della proprie abilità, perfino nello specifico del proprio ambito di lavoro, là dove ci sentiamo più sicuri e capaci, nell’occasione di riflettere apertamente sul significato della propria vita, non è mai operazione banale e rassicurante. Può diventare, però, il modo più serio per accettare il fatto che la realtà ha sempre una dimensione eccedente e che Dio spesso parla proprio a partire da qui.

Simone e i suoi compagni, dopo una notte di duro lavoro, mettono a disposizione le proprie barche perché il Signore possa insegnare alle folle, proprio perché hanno il coraggio di vincere la stanchezza grazie al bisogno di colmare il vuoto che si portano dentro e che hanno percepito in tutta la sua durezza di fronte a quelle reti rimaste senza pesci. Non si perdono d’animo e accolgono l’occasione di dare una possibilità a quel maestro che ancora non conoscono del tutto. Ascoltandone gli insegnamenti riconoscono una parola affidabile per la loro vita e per questo decidono di scommettere al di là di ciò che è ragionevole: tornano al largo per gettare nuovamente le reti.

Non riflettiamo mai abbastanza sull’importanza di ascoltare la Parola di Dio proprio quando ci sentiamo male, vuoti e fragili; non riflettiamo mai abbastanza sulla possibilità di dare credito all’invito di gettare le reti proprio quando sembra inutile farlo, quando abbiamo chiara la percezione di stare girando a vuoto.

Quanto possa essere risolutivo per il cammino della nostra vita incontrare una parola buona, proprio quando ne abbiamo bisogno, può sembrare scontato, ma quanto è difficile crederci: quanto è difficile credere a un Dio che ha intenzione di investire su di noi proprio quando ci mostriamo incapaci e insicuri, un Dio che ha il gusto della sfida e che, con la sua parola, non vuole mettere in luce la nostra pochezza, ma stimolare la nostra fantasia e la nostra capacità di vederci differenti da quello che siamo.

Di fronte alla dichiarazione di Simone di essere un peccatore, una constatazione vera, oggettiva della propria condizione, Gesù non allarga le distanze, anzi le restringe investendo sulla possibilità di fargli comprendere che la realtà del peccato non è quella che descrive al meglio la sua identità: Simone, come i suoi compagni, è quello che è, un pescatore, ma non sa ancora cosa può diventare dando credito alle parole buone che qualcuno sta pronunciando su di lui. Alle volte sembra quasi che la vita delle persone manchi proprio di questa possibilità di agganciare una parola che dica bene della loro esistenza, magari proprio in un frangente delicato, come quello che stanno vivendo tanti adolescenti in questa stagione. Rimaniamo tutti colpiti dagli episodi di violenza che tanti ragazzi manifestano: violenze di gruppo, aggressioni fisiche e verbali, episodi a sfondo razziale, basti ricordare il dodicenne di Livorno insultato e picchiato perché ebreo, tragici casi di violenze sessuali, spesso all’interno di festini organizzati da gruppi di amici, ma al di là dello sdegno siamo capaci di porci domande serie che non accettano di essere più differite? Chi si è preoccupato di dire una parola buona sulla vita di questi ragazzi, magari proprio la parola che gli avrebbe permesso di prendere coscienza del vuoto che li abita? Chi sarà capace di farlo ora, di fronte allo strazio delle vittime e alla inconsistenza dei presunti carnefici?

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