Senza un maestro
Nei versetti iniziali del brano di Vangelo di questa ottava domenica del Tempo Ordinario (Lc 6,39-45), leggiamo un invito, neppure tanto velato, a riconoscere quale sia il posto giusto nella vita. Volere ergersi a guide quando non vi siano le condizioni per poterlo essere non ha senso. Volere condurre, quando sarebbe più opportuno lasciarsi condurre, porta soltanto a un prevedibile disastro. Ogni ruolo per essere esercitato e vissuto al meglio ha bisogno di preparazione: mi ha sempre colpito l’umiltà di tanti grandi della storia che hanno avuto il coraggio di ammettere l’importanza dei propri maestri e la loro grandezza: del resto ammettere di essere nani sulle spalle dei giganti nulla toglie alla fatica che un nano deve fare per salire sulle spalle di qualcuno molto più grande di lui. Una società dove non si ha più il coraggio di riconoscere il ruolo dei maestri e dove tutti sembrano nascere dal nulla, grazie al prodigioso talento che ci rende unici e speciali, appare come l’estrema conseguenza di un mondo dove conta soltanto l’apparire, anche solo per i famosi dieci minuti di celebrità.
Riconoscere di avere un maestro e di avere la possibilità di confronto con lui, segna un cammino di crescita in una qualche specifica realtà della vita – sport, studio, lavoro, relazioni – assicurando il tempo necessario ad una acquisizione piena e profonda di quello che serve per esercitare al meglio il proprio ruolo e i propri compiti: viene offerta anche la possibilità di sbagliare e fallire, in modo da imparare a integrare anche la fase dell’errore in un completo cammino di crescita, cammino che per essere davvero umano, non può evitare di fare i conti con l’interezza dell’esistenza.
Oggi non si concede il tempo di crescere: esistono allenatori, personal coach, motivatori, ma sono spariti i maestri o, se ci sono, nessuno li cerca più.
Viene chiesta, con insistenza, una prestazione continua e ottimale, come unico modo possibile per abitare il nostro tempo: da un lato, tutti coloro che rendono e vanno spremuti perché rendano di più, dall’altro gli scarti che vanno assistiti perché già spremuti abbastanza o perché incapaci di produrre qualcosa di veramente utile. Spesso poi avviene di passare dall’una all’altra categoria senza neppure accorgersene.
Non ci diamo il tempo di valutare con la dovuta profondità il frutto delle nostre azioni, il senso delle vicende che attraversiamo: senza la fiducia in un maestro che ci aiuti a leggere la vita per fare i giusti passi, non riusciamo più a capire quali frutti sia in grado di produrre l’albero della nostra esistenza. Senza concederci il tempo di leggere la conseguenza delle nostre azioni, perché continuamente presi dalla volontà di fornire nuove prestazioni, non riusciamo più a comprendere cosa ci possa essere da cambiare nella nostra vita.
Gesù, come maestro che ama accompagnare i discepoli lungo cammini di libertà, ci offre l’immagine, cara alla tradizione biblica, dell’albero che genera frutti secondo la propria specie. Non ce la presenta come dato di fatto incontrovertibile, come a dire che gli uomini cattivi rimangono cattivi e viceversa quelli buoni saranno sempre buoni. Ci vuole spingere a entrare dentro alla realtà del nostro cuore per capire che, da una lettura onesta delle azioni che mettiamo in campo, sia possibile cogliere la radice profonda che le ha prodotte. La radice del male e del bene trova alimento da un cuore malato o sano, ma se non abbiamo mai il tempo e il coraggio di guardarci dentro per cogliere in che stato sia il nostro cuore, continueremo ad alimentare la convinzione che sia più semplice e appagante cercare la pagliuzza nell’occhio dell’altro.
Se si riconosce la qualità dell’albero dal frutto, allora è possibile che, concedendosi il tempo e l’onestà di valutare i frutti per quello che sono, si intraveda la possibilità di un innesto, magari doloroso, ma necessario e tollerabile, per cambiare davvero direzione. Tutto questo, ci suggerisce il Vangelo, è possibile solo aprendosi alla comprensione della nostra condizione di fragilità che ha bisogno di essere guidata dalla compassione e dalla forza dell’unico maestro.
L’alternativa di una vita vissuta sempre a mille, nella logica della migliore prestazione, porta ad avere gli occhi ostruiti da una trave che, non solo ci impedisce di vedere l’altro, ma che alla fine diventa un peso insopportabile e un dolore insanabile per la nostra stessa vita.
Credo ci si possa togliere la vita per tanti motivi e nessuno ha il diritto di giudicare un gesto tanto estremo quanto straziante: ma ogni persona che arrivi a sentire la vita tanto pesante da decidere di congedarsi in maniera drammatica da questo mondo, diventa un capo d’accusa ineludibile per ogni società: il caso di un giovane adolescente italiano che si uccide in un college americano perché a rischio di espulsione o in conseguenza di punizioni giudicate troppo severe, ma si potrebbe allungare di molto il triste e tragico elenco soprattutto di giovani che non ce la fanno più, ci racconta di un mondo malato in cui conta solo la prestazione, dove a nessuno viene concesso di crescere anche attraverso gli errori compresi e metabolizzati, dove ai più, soprattutto se giovani, viene imposto di mettere in mostra tutto il proprio talento senza lasciare il tempo di scoprire davvero quale esso sia. Un mondo dove mancano maestri capaci di prendersi il tempo per curare alberi che possano dare frutto nella stagione opportuna. Se conta solo la logica del più forte, se vale solo la prestazione del momento, non c’è spazio per i deboli: chi si ferma è perduto e, senza accorgercene, scivoliamo tutti lentamente verso continue guerre di sopraffazione.