In cammino
Crediamo che la felicità risieda nell’ottenere risultati, nel sentirsi arrivati, nel riuscire a raggiungere un obiettivo. Pensiamo che gli altri siano disposti a riconoscerci, prima di ogni altra cosa, un ruolo e la capacità di realizzarlo senza mostrare sbavature e tentennamenti. Oggi va molto di moda parlare di fragilità e della necessità di accogliere i propri limiti per avere una corretta visione di sé e degli altri, peccato che, poi, di fronte alle necessità della vita, prevalga la visione antica dell’uomo e della donna di successo: l’idea di qualcuno che possa affermare con sicurezza di avercela fatta e di vedere riconosciuta la propria identità.
In fondo, pensiamo che il discorso sulla fragilità sia anche bello ma che valga per gli altri, i deboli, gli indifesi e gli ultimi: nessuno pensa o desidera di essere annoverato tra queste categorie e difficilmente potrebbe pensarlo per una persona a lui cara.
La notizia di un giovane ragazzo padovano che si toglie la vita perché incapace di reggere le pressioni del contesto che lo circonda, contesto che attende da lui una laurea data per certa e invece ancora lontana, racconta in maniera eclatante la situazione di tanti giovani chiamati a corrispondere alle aspettative degli adulti, più che a cercare legittimamente di costruirsi una vita sensata. Un episodio tragico, peraltro non l’unico negli ultimi anni, che racconta quanta sofferenza si nasconda dietro a certi percorsi di vita apparentemente normali e lineari: la tragedia di questo ragazzo e della propria famiglia, non è lontana dalla realtà di tanti che hanno la sensazione di non essere all’altezza delle continue richieste di prestazione messe in atto dalla società dei consumi: qui l’unico rischio vero è che si continuino a consumare vite.
La figura di Giovanni il Battista che entra prepotentemente in scena in questa seconda settimana di Avvento (Mt 3,1-12), mette in discussione la logica dell’immagine di successo e delle aspettative forzate. Ci riporta al cuore di noi stessi e della nostra realtà.
I tanti che si vanno a fare battezzare da Giovanni, tra loro perfino farisei e sadducei, lo raggiungono nel deserto perché riconoscono in lui una persona credibile, qualcuno che parla attraverso l’essenzialità della sua vita: vedono in lui non uno di successo, ma uno che, prendendo sul serio la radicalità dell’esistenza, ne riconosce le povertà e i limiti e per questo mette al centro il tema della conversione.
Fare frutti degni della conversione non vuol dire raggiungere un’appartenenza, diventare bravi, avere finalmente delle ottime prestazioni, non vuol dire entrare a far parte del club dei migliori. Lasciare che la conversione entri nella nostra vita apre la prospettiva ad un taglio radicale rispetto a un’idea statica del successo. Ciò che fa di noi uomini e donne di successo secondo il Vangelo è la capacità di rimanere in movimento e non quella di essere arrivati, gente aperta all’azione dello Spirito che continuamente corregge, pota e indirizza: Giovanni, attraverso immagini forti, contesta il fatto che ci sia una qualche condizione frutto di diritti acquisiti che possa mettere al riparo dalla necessaria fatica del vivere; anzi arriva a dire che portare buoni frutti dipende proprio dalla possibilità di continuare a sentirsi sempre in cammino.
Giovanni ha la consapevolezza di essere lui stesso in cammino, in attesa di qualcuno molto più grande di lui: questa consapevolezza lo rende attento alla vita e in continuo atteggiamento di vera conversione. Chi lo va a incontrare non vede soltanto la coerenza, ma ne percepisce anche la grandezza che scaturisce dalla sua umiltà: è lui il primo a rendersi conto di dover produrre frutti degni della conversione. È lui il primo a percepire di dover ancora camminare e a sentire che è dentro a questo cammino la possibilità di incontrare la salvezza che viene da Dio. Giovanni sa di non essere arrivato e per questo vive davvero. Ha intravisto qualcosa che annuncia con coraggio senza risparmiarsi, ma sa di farlo secondo la prospettiva della tradizione religiosa da cui proviene: anche lui dovrà purificare la propria immagine del messia e potrà farlo solo continuando a camminare, credere e sperare.
Solo una prospettiva dinamica della vita potrà salvarci dal peso delle aspettative che incasellano e irrigidiscono. Solo il percepire la nostra vita con le sue fragilità come il continuo banco di prova per accogliere il perdono di Dio, potrà rimettere in moto il desiderio di essere persone migliori, senza creare false illusioni e facili depressioni.
Sapersi in cammino è la grande saggezza che il Vangelo viene ad offrirci come antidoto al cinismo di chi ci dipinge falliti solo perché non siamo arrivati: del resto chi ha fatto l’esperienza di un vero pellegrinaggio ha ben chiara la percezione che, una volta arrivati, il vero tesoro lo si riscopre nel percorso fatto.
Parlando di Giovanni, Gesù dirà che non vi è nato da donna più grande: il successo di Giovanni sta tutto qui, nel credere davvero alla conversione che predica.