Eroi senza medaglia

Eroi senza medaglia

Essere o non essere? Questo è il dilemma. Questione posta in modo poetico e drammatico nell’Amleto di Shakespeare, ma domanda a cui è difficile rispondere anche oggi. Per tanti giovani potrebbe essere riformulata in questi termini – cosa voglio diventare nella vita? – ma rimane domanda aperta anche per i tanti adulti che hanno investito la propria esistenza nell’apparire in un certo modo, grazie al proprio lavoro e alle proprie libere scelte. Apparire o non apparire, vedere riconosciuta una certa immagine di sé oppure no? Sono tutte varianti sul tema che, formulato nell’orizzonte di questa nostra società dell’immagine, riceve una consistenza nuova e del tutto particolare: ognuno costruisce la propria identità a partire dalle proprie esperienze e da come, in esse, viene percepito dagli altri, ma rimanere appesi al filo di questo riconoscimento può diventare una malattia che alla lunga può portare alla morte, se non fisica, almeno interiore. Abbiamo tutti bisogno di essere apprezzati per quello che facciamo e per come siamo e di questo, spesso, finiamo per accontentarci, smettendo di chiederci con onestà chi siamo davvero. Conta molto di più quello che gli altri dicono di noi piuttosto di quello che noi stessi sappiamo essere vero per noi: forse, a pensarci bene, il problema sta proprio qui, nel fatto che facciamo molta fatica a riconoscere cosa è vero nella nostra vita.

Il singolare caso, riportato da alcuni giornali, di un ufficiale dell’esercito italiano che, dopo aver partecipato alla missione statunitense Enduring Freedom in Afghanistan, non si è visto riconoscere dall’esercito del proprio paese l’onorificenza al valore che avrebbe ricevuto dal Department of the Army, mi sembra emblematico. In realtà ciò che è interessante è il fatto che l’esercito italiano contesta l’avvenuta assegnazione della medaglia, ritenendo che l’ufficiale abbia presentato documenti insufficienti ad attestarne l’autenticità. Nessuno riesce a ricostruire la vicenda e la contestazione da parte dell’ufficiale in questione ha generato un processo terminato in Cassazione con la sentenza di istituire un nuovo processo, che definisca se ci si trovi di fronte a un eroe di guerra o a un impostore. Essere o non essere? Chi deve definire la vera identità di una persona? E perché mai uno dovrebbe voler apparire quello che non è? Domande che non sembrano toccare la figura di Gesù che ci viene presentata nel racconto delle tentazioni nel Vangelo di Matteo, in questa prima domenica di Quaresima dell’anno A (Mt 4, 1-11).

Dice l’Evangelista che «Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo». Il problema, dunque non è la tentazione, realtà comune all’essere umano di Gesù come al nostro. La tentazione, lo stare di fronte al male e al peccato, spesso anche il doverla attraversare, segna la normalità della nostra fragilità. Ci è stato insegnato che bisogna fare di tutto per evitare le tentazioni, come a dire che siccome siamo così deboli da non poter resistere in alcun modo, meglio evitare. La tentazione, invece, è parte costitutiva dell’esistenza umana, tanto che Gesù è chiamato dallo Spirito a doverla affrontare proprio all’inizio della propria missione. Si deve passare dalle tentazioni se si vuole davvero capire chi si è. Il fatto è che il maligno, attraverso le prove cui vorrebbe sottoporre Gesù, non cerca di mettere in discussione alcuni aspetti della vita di Gesù per fare vedere al mondo che anche Dio è debole: quello che il diavolo vuole contestare è la convinzione stessa presente nell’intimità del figlio di essere veramente figlio amato. Riuscire a convincere Gesù stesso di avere bisogno di prove per essere sicuro definitivamente della propria identità è la macchinazione suprema del male, quella che gli potrebbe permettere di avere la vittoria definitiva su ogni uomo. Gesù si lascia mettere in discussione sui propri bisogni primari, sulla propria idea di potere e perfino sul modo di concepire la fede, ma non accetta di essere messo in discussione sulla propria identità di Figlio. Proprio per questo riesce a respingere ogni lusinga del male: lo può fare perché ha chiara la sua origine e la verità ultima della propria esistenza. Non ha bisogno di tribunali, non ha bisogno del riconoscimento degli altri, non ha bisogno di medaglie per sapere di essere l’amato. Non ha bisogno di fingere di essere qualcun altro per sentirsi forte di fronte alle tentazioni: nella solitudine del deserto può affrontare il male perché ha dato la sua risposta definitiva all’eterna domanda: meglio essere che apparire. Noi sappiamo bene quanto invece sia difficile trovare una risposta definitiva nelle vicende della nostra vita, soprattutto quando ci sentiamo soli: se, però, di fronte alle tentazioni inevitabili, al posto di scappare, provassimo qualche volta a starci, ricordandoci che anche di noi è stato detto che siamo figli amati, probabilmente riusciremmo a scoprirci molto più forti di quanto immaginiamo. In fondo anche noi, come Gesù, non abbiamo bisogno della sentenza di un tribunale per accogliere la nostra identità di figli e vivere da eroi del quotidiano. Potrebbe essere la scoperta di questa Quaresima.

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