La coscienza dei figli

La coscienza dei figli

Quando i figli vogliono essere lasciati in pace e non vogliono seccature rispondono ai genitori che va tutto bene, che è tutto a posto. «Com’è andata oggi a scuola?», «Tutto bene.». Poi, magari, si scopre che qualche quattro ha reso indigesta la mattinata e che in realtà le relazioni a scuola non sono poi così fruttuose ed educative.

Per mettere a tacere chi ti invita a fare qualcosa è normale rispondere subito di sì, poi, in realtà, si vedrà, si valuterà, ma almeno la seccatura di avere qualcuno di fronte che chiede con insistenza viene accantonata. Lo si capisce subito quando un bambino risponde di sì a un adulto solo per essere lasciato in pace, o per accondiscendenza: lo si capisce dallo sguardo assente, dal tono della voce, dal disimpegno spesso già presente in parole vuote che non sanno fare uscire veramente quello che nascondono dentro.

Da bambino mi è capitato un sacco di volte di rispondere sì a qualche richiesta di mia madre, solo con l’intento di guadagnare tempo, di rimandare una fatica che avrei fatto davvero solo se obbligato o magari dopo una bella litigata. Ricordo però con molta più precisione le rare volte in cui ho avuto il coraggio di dire di no, per arrivare poi, in maniera autonoma, a capire che era meglio fare quello che mi veniva richiesto. Ricordo la gioia di scoprirsi migliore di come ci si era immaginati; ricordo la soddisfazione di sentirsi autonomi e capaci di scegliere il bene senza essere costretti da nessuno; ricordo, in fondo, la bellezza di prendere contatto con propria coscienza.

Mi immagino, attraverso questi ricordi, la scena descritta nella parabola dei due figli di cui ci racconta il Vangelo di Matteo (Mt 21,28-32) nella XXVI domenica del tempo Ordiario anno A. Una piccola parabola raccontata per fare comprendere che ciò che conta davvero è fare la volontà del Padre, come recitiamo ogni volta nella preghiera del Padre nostro. Non una volontà da ricercare in astratto, non qualcosa di magico a cui corrispondere con la propria vita, ma la possibilità quotidiana di realizzare nei fatti le parole e le proposte del Vangelo.

Come il primo figlio, ci perdiamo spesso in parole leggere, che in realtà non esprimono il desiderio di aderire veramente al Vangelo, ma solo la voglia di essere lasciati stare. In noi, però, c’è anche la seconda possibilità di essere figli alla maniera di chi dice prima di no, ma poi sa mettersi in gioco. C’è questa possibilità quando riusciamo a fare i conti con la nostra poca voglia: quando, finalmente, riusciamo a dirci che abbiamo poca voglia di fare il bene, quando sappiamo riconoscere a noi stessi che corrispondere alle parole del Vangelo è inizialmente spesso molto faticoso. «No, Signore, non ne ho proprio voglia!».

Accettare la nostra condizione di svogliati è l’occasione per risvegliare una coscienza assopita dai troppi sì detti senza convinzione e pronunciati solo per godere di un attimo di falsa libertà. L’onestà del secondo figlio è la via da percorrere davvero per abbracciare la nostra umanità ferita dal peccato. Il monito con cui Gesù chiude il racconto, spiegando che pubblicani e prostitute ci precedono nel regno di Dio, va preso molto seriamente: coloro che accolgono l’esigenza della conversione, questo ci ricorda il riferimento alla predicazione del Battista, si aprono alla scoperta di avere ancora una coscienza viva, capace di potersi innamorare nuovamente della realtà. Quelli che rimangono legati alla propria reputazione di bravi figli che sanno dire soltanto sì, finiscono per cadere in una condizione di generica apatia che porta a non fare nulla, a rimanere immobili, incapaci di camminare nella direzione del regno.

La malavoglia che ci abita va riconosciuta e accettata se vogliamo iniziare a fare i conti con la fatica che il bene comporta.

Della notizia dei dodici che al tempo dei fatti contestati erano minorenni e che hanno devastato una casa a Canazei nel 2020, in pieno lockdown, provocando danni per circa 130000 €, non mi stupisce la dinamica della bravata, la violenza gratuita e il fatto che fossero in preda all’alcol. Non mi stupisce neppure che la cosa sia venuta alla luce grazie ad un selfie, alla ormai banale e consueta dinamica dell’apparire a tutti i costi. Mi sorprende invece la reazione dei genitori che di fronte alle contestazioni del tribunale hanno espresso candidamente il proprio stupore: «Increduli, li abbiamo educati bene!». Sarà anche vero, ma forse il problema sta nel confondere la buona educazione con l’accondiscendenza, il sentirsi dire sempre sì, senza avere la pazienza di verificare i fatti. Serve coraggio per suscitare quei no che aiutano a prendere coscienza della propria pochezza, ma che aprono alla possibilità di vincere la noia. Educare vuol dire vivere senza frustrazione il fatto che i più giovani sappiano fare i conti anche con la propria poca voglia e sappiano esprimerla senza tenerla nascosta.

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