Fuori o dentro allo spettacolo?
L’ultima domenica del Tempo Ordinario è dedicata alla solennità di Cristo Re dell’Universo. L’anno A presenta il brano del giudizio secondo il racconto del capitolo 25 del Vangelo di Matteo (Mt 25,31-46). Il racconto, didascalico ed estremamente chiaro, non ha lo scopo di raccontarci come andranno le cose alla fine dei tempi. Ha piuttosto l’obiettivo di metterci di fronte al fatto che ci sarà un giudizio e che questo giudizio, riservato a Dio, si realizzerà pienamente per mezzo del Figlio, nelle modalità di una consapevole o meno relazione con lui, attraverso il riconoscimento dei piccoli e degli ultimi.
La domanda che ritorna con insistenza, declinata in forme differenti, è: quando Signore? Quando ti abbiamo visto? Domanda tragica, per una stagione della storia come la nostra che fa della vista l’organo di valutazione di ogni relazione e strumento principale di apprezzamento della vita. Quello che è visto da tanti ha valore, ciò che non appare e che non ha visibilità, conta poco. Se ti vedo, ci sei, esisti, se non ti vedo sparisci e alla lunga la tua stessa esistenza è messa in discussione.
Eppure, proprio questo modo di concepire il significato del vedere viene sconfessato dagli avvenimenti di cronaca di questi giorni. Continuiamo a vedere donne maltrattate e uccise e continuiamo a chiederci quale sia il problema che c’è dietro. Continuiamo a vedere bambini morire in guerra e continuiamo a discutere sulle ragioni che provocano tali guerre. Vediamo aumentare i poveri attorno a noi ma continuiamo a discutere su come conservare e, se possibile, aumentare le nostre ricchezze. Cosa c’è che non va?
Vediamo con i nostri occhi, quindi non possiamo dire che queste realtà tragiche non esistono: il problema è come vediamo, in che modo guardiamo.
Stiamo diventando sempre più spettatori e neppure spettatori che condividono la socialità di una sala cinematografica, ma spettatori davanti al nostro singolo schermo, spettatori capaci di commuoversi, di piangere per ciò che ci tocca, ma chiusi nella quiete della nostra stanza, in realtà sempre più impermeabili al mondo.
Spettatori sempre più impauriti delle conseguenze che ci possono riguardare, desiderosi di dire la nostra su tutto, ma incapaci di accettare che il tutto possa e debba interagire con la nostra vita. Come in uno spettacolo coinvolgente vediamo scorrere le imprese di attori capaci e credibili, ci lasciamo trascinare dalle storie che seguiamo con afflato emotivo, ma, in fondo, lo possiamo fare proprio perché sappiamo di essere di fronte a uno spettacolo che si concluderà.
In fondo sappiamo che a breve torneremo alle nostre vite sicure.
Ci illudiamo che lo spettacolo riguardi sempre gli altri, quelli che non hanno pagato il biglietto. Noi il biglietto l’abbiamo, anzi abbiamo l’abbonamento registrato sui nostri dispositivi elettronici.
La domanda alla quale il Re, nel racconto evangelico di Matteo, non esita a dare risposta, ci mette di fronte alla drammatica constatazione che anche noi facciamo parte dello spettacolo e che non ci sarà garantito tornare alla sicurezza della casa del Padre, senza aver fatto prima i conti davvero con quello che abbiamo visto.
Quando Signore? Quando ti avremo incontrato?
Solo se dopo avere visto avremo anche fatto qualcosa per andare incontro al fratello più piccolo e bisognoso.
Solo quando ci saremo alzati per andare incontro alle grida della sorella vessata e maltrattata.
Solo quando avremo deciso di intervenire per tornare ad essere protagonisti.
Lasciamo che il nostro sguardo sia rieducato dalle vicende drammatiche che vediamo, sottoponendoci alla cruda valutazione del racconto evangelico di questa domenica.
Affidiamoci alla giusta cura di chi non ci vuole più spettatori inermi di eventi emotivamente coinvolgenti ma lontani. Fidiamoci di chi non ci chiede se abbiamo pagato il biglietto o l’abbonamento, ma di chi ci chiede con insistenza conto del nostro ruolo nello spettacolo della vita.