Metterci la faccia

Metterci la faccia

L’onestà e la limpidezza di Giovanni fanno bene al cuore: nel vangelo di questa II domenica del tempo ordinario anno B (Gv 1,35-42), ci viene descritto il momento in cui il Battista, fissando lo sguardo su Gesù, lo indica come l’agnello di Dio, consegnando di fatto i suoi discepoli nelle sue mani. Giovanni non ha paura di perdere la faccia, di perdere consensi di fronte a uno più importante di lui, anzi riconosce che il bene di chi lo sta seguendo è quello di iniziare a seguire un altro. Avrebbe potuto indirizzare con calma i suoi discepoli ad una eventuale sequela di Gesù, parlando con loro in privato, cercando di convincerli senza mettere in discussione il proprio ruolo e di conseguenza senza perdere credito nei confronti della gente; avrebbe potuto fare salva la propria privacy, diremmo oggi, e invece preferisce metterci la faccia perché sia superata ogni ambiguità.

Giovanni, in questo momento, è un uomo di successo, uno che si è costruito un seguito, un influencer importante, capace di muovere le masse, ma non dimentica la ragione vera di questo suo impegno: portare le persone alla salvezza che solo Dio può dare. Per questo è capace di fissare lo sguardo su Gesù che passa senza rimanere legato al peso della propria immagine, senza preoccuparsi delle conseguenze di questo gesto sulla propria immagine. Giovanni è libero e per questo motivo, di fronte al bene, non si nasconde, anzi lo indica con fermezza per dichiarare a tutti che anche lui ne ha bisogno.

Come nella semplicissima e toccante storia di questi primi giorni dell’anno riportata dai giornali genovesi (la Repubblica del 10/01), il bene accolto e incontrato apre al desiderio di essere conosciuti e non all’umiliazione di vedere messa alla gogna la propria condizione di indigenza, né al desiderio di sparire e non essere visto:

“Mi scusi, può mica girarsi di schiena? Vorrei fare una foto per documentare la fila sempre più lunga…”, ha chiesto il presidente del Comitato via del Campo e Caruggi Aps, Christian Spadarotto, davanti all’ambulatorio sociale di vico Croce Bianca 24 a Genova. “No, non mi giro: per ringraziare chi mi cura, voglio che la mia faccia si veda”, ha risposto l’anziano.

Il bene, accolto, incontrato e vissuto genera verità, genera il desiderio di riconoscersi e di essere riconosciuti, genera sguardi diretti e accoglienti, sguardi che rivelano identità profonde. Lo vediamo nel modo di agire di Gesù che, come prima cosa, si gira e osserva coloro che lo seguono e solo dopo pone una domanda di senso a cui si può rispondere soltanto con la disponibilità a seguirlo.

Come Giovanni, così i suoi discepoli, come l’anziano indigente in fila davanti all’ambulatorio sociale, sono disposti a metterci la faccia, perché hanno incontrato lo sguardo di Gesù, lo sguardo di qualcuno che li cura e li ama gratuitamente: tutto alla luce del sole. Sono le quattro del pomeriggio.

Toccati dal volto e dalla disponibilità di chi li ha accolti nella sua casa, che è la dimora del Padre, perché Gesù viene dal seno del Padre, i discepoli diventano a loro volta capaci di chiamare altri senza avere paura di entrare nella loro intimità. Un gioco di incontri e sguardi che, come in una catena, crea relazioni nuove anche dove ci sono già quelle di sangue, come nel caso di Andrea e Simone.

Il porre lo sguardo di Gesù su Simone tocca la profondità più intima della sua realtà: ne rivela le potenzialità, svela ciò che lui stesso non ha ancora scoperto, quello che può diventare. Accettare di essere guardati in questo modo, di essere messi a nudo dal bene, è quello di cui tutti abbiamo bisogno per uscire finalmente allo scoperto. Continuare a sostenere una logica di privacy di fronte allo sguardo penetrante di Dio è un modo per continuare a mentire a noi stessi, un clamoroso autogoal che descrive soltanto la sterile solitudine dentro alla quale ci cacciamo in attesa di scoprire chi siamo. Senza lo sguardo di qualcuno, non possiamo camminare nella verità su noi stessi: se ci fidiamo soltanto di quello che sentiamo e di come ci vediamo allo specchio siamo destinati a sfiorire. Il problema è scegliere sotto quale sguardo porre la nostra vita: scegliere di metterci sotto lo sguardo del bene.

Siamo gente amata, gente che si lascia aiutare e che non si vergogna di avere bisogno di essere aiutata; gente che lasciandosi aiutare impara a metterci la faccia e che proprio per questo non perde la propria identità.

Tutto in un gioco di sguardi.

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