La consegna del silenzio
Per quanto un gesto possa apparire straordinario o una frase sembrare definitiva per la sua importanza ed efficacia, non avrebbero storia se non ci fosse qualcuno a custodirli. Tutte le cose importanti della nostra vita hanno bisogno di tempo per essere capite fino in fondo e diventano davvero fondamentali proprio perché, al momento opportuno, ritornano con la loro evidenza e avendo fatto crescere in noi una maturità nuova, una consapevolezza che ci porta a dire: «adesso ho capito!».
Il tempo della custodia è tempo necessario per evitare di rimanere schiacciati dalle emozioni, ma anche per comprendere fino in fondo in che modo il passato possa diventare materia che il presente libera verso il futuro.
I tre discepoli chiamati a fare l’esperienza della Trasfigurazione di cui ci parla Marco nel vangelo di questa II domenica di Quaresima, anno B (Mc 9,2-10), vivono una realtà molto più grande di loro, qualcosa che non possono capire ma che devono vivere fino in fondo se vorranno arrivare a conoscere la vera identità del proprio maestro. L’esperienza della Trasfigurazione viene concessa dopo aver definitivamente affermato la necessità della croce in conclusione del capitolo precedente: una sorta di breve momento di ristoro nel cammino impegnativo verso la morte, ma anche uno spaccato di luce e speranza verso il futuro. Gesù lascia intravedere la sua realtà divina, quella a cui appartiene e allo stesso tempo riceve la conferma del Padre sulla sua realtà di Figlio amato e sul modo di investire totalmente la propria umanità. La compagnia di Mosè ed Elia è la conferma che tutta la Scrittura, la legge e i profeti, parla di questo momento: della rivelazione del progetto di Dio di restituire, attraverso Gesù, l’umanità alla sua condizione di amabilità.
Di fronte a tutto questo i discepoli sono frastornati, quasi increduli: la nube non è solo il segno della presenza di Dio, secondo la classica immagine della tradizione biblica, ma anche efficacissima immagine della situazione dei discepoli avvolti nella straordinaria grandezza del mistero senza poterlo capire. Ogni nostra relazione con Dio, anche nelle esperienze più spiritualmente appaganti è fatta di una nube che copre e svela allo stesso tempo, proprio come sul monte Tabor, dove Pietro, Giacomo e Giovanni, avvolti dal mistero che li circonda, tuttavia sentono la voce che svela l’identità di Gesù e con essa qualcosa di straordinario sulla loro futura missione.
Per comprendere pienamente il senso dell’esperienza vissuta, i tre avranno bisogno di rimanere con Gesù, di lasciare solo a lui l’ultima parola per leggere la loro storia e quella del mondo a cui sono rimandati senza esitazione: riceveranno, in maniera sorprendente, una consegna al silenzio, qualcosa di inaspettato per un lettore poco attento del vangelo di Marco. Per chi, invece, ha dimestichezza con i precedenti capitoli del vangelo, sarà più che comprensibile questo invito a mantenere il segreto per evitare che vi possano essere fraintendimenti. Gesù sa benissimo che fino a quando non avrà portato a termine la propria missione sarà impossibile comprenderla a pieno: la croce e la resurrezione saranno il motore di ogni possibile rilettura della sua vicenda umana e terrena.
Il tempo della custodia, però, non può essere vissuto in maniera passiva, in attesa che le cose si svelino da sé: oltre al silenzio viene chiesto ai discepoli di raccontare la propria esperienza solo dopo aver visto il Figlio dell’uomo risorgere dai morti, invitandoli, in maniera implicita, a coltivare la domanda sul significato dell’espressione «risorgere dai morti».
L’atteggiamento giusto, allora, per custodire davvero le esperienze è quello di continuare a coltivare le domande sul loro significato. Questa prospettiva mi sembra ancora più valida e promettente in vista dello scambio con le generazioni future: c’è da chiedersi, però, se gli adulti di oggi siano capaci di suscitare domande vere e preziose che possano mettere in condizione i più giovani di custodire le loro esperienze fino a ritrovarne il senso. Forse basterebbe soltanto che si creassero le condizioni per favorire questa dinamica, alle volte anche solo diventando credibili nel custodire le domande stesse dei più piccoli di fronte agli avvenimenti della vita.
La comunità cristiana, in fondo, dovrebbe proprio fare questo: farsi garante del fatto di saper creare spazi e tempi per la custodia di quelle domande che l’uomo cerca di coltivare anche oggi per avere uno sguardo trasfigurato sulla realtà, una realtà che altrimenti rischierebbe di essere letta a partire solo dagli evidenti segni di morte che porta in sé, dimenticando il codice per la lettura degli altrettanto evidenti segni di resurrezione.