Il seme della speranza

Il seme della speranza

Gli uomini hanno la tendenza a muoversi dalle cose grandi e appariscenti a quelle più piccole e insignificanti. Spesso però accade che di fronte alle manifestazioni imperiose del grande e potente si finisca per dimenticare ciò che è piccolo e marginale. Proprio in questi giorni, nel nostro paese, si sta celebrando l’incontro dei grandi della terra, il cosiddetto G7, incontro dei capi di stato dei paesi più ricchi e potenti, così almeno pare. Se, in effetti, i dati economici dicono questo, trattandosi dei paesi con le economie più avanzate, le interazioni della storia e i fatti che quotidianamente si dipanano sotto ai nostri occhi, ci offrono un quadro molto più complesso, un quadro dove l’influenza sempre più crescente di altri paesi e realtà ci riporta alla dimensione più corretta dove collocare questo incontro.

I nostri occhi si lasciano sopraffare dalle manifestazioni del potere e della ricchezza, finendo per dimenticare che tali manifestazioni possono essere, in realtà, la copertura di una fragilità sistemica estremamente radicata.

Cosa si ritrovano a discutere i capi di stato delle nazioni più ricche al mondo? Si trovano a parlare di come aiutare i più poveri e gli ultimi, i piccoli e i marginali della terra, o piuttosto si ritrovano per definire e riaffermare le linnee portanti di un sistema che non vuole cambiare e che pensa soltanto a mantenere se stesso?

Dalle pagine dei giornali, in questi casi, dovrebbero sparire tutte le notizie relative all’evento in sé, dalla lista dei cibi e delle bevande all’elenco dei vestiti e delle spettacolari locations, e fare capolino soltanto le notizie relative ai contenuti e ai temi davvero fondamentali. Bisognerebbe riscoprire una sobrietà di fondo da cui ripartire per guardare le cose nella giusta prospettiva: oggi il mondo ha fame e sete di cose essenziali, di trovare piste davvero percorribili dentro alle difficoltà e alle complessità del presente. Non facili soluzioni e semplici maquillage. Per fare questo ci sarebbe bisogno di un vero e proprio cambio di paradigma su cui riformulare il pensiero.

Il vangelo di Marco in questa XI domenica del tempo ordinario, attraverso le immagini di alcune parabole che ci parlano del Regno di Dio (Mc 4,26-34), ci vuole aiutare a fare proprio questo: il seme che cresce fino a diventare una spiga, nella totale inconsapevolezza del contadino che lo ha seminato e il granello di senape che pur essendo il più piccolo tra i semi del terreno, diventa l’albero più grande dell’orto, sono le realtà che la fervida immaginazione di Gesù ci mette davanti perché impariamo a considerare le cose in modo differente: il Regno di Dio, la sua presenza dentro alla storia degli uomini, non si misura attraverso lo splendore e la gloria del potere, né si può valutare a partire dalla logica del più grande ed evidente. Bisogna imparare a guardare il piccolo, a riconoscere i segni di una presenza leggera e nascosta che però innerva davvero la vita portandola al compimento e alla pienezza.

Nelle cose marginali di cui nessuno si occupa ci sono i semi delle realtà destinate a diventare davvero grandi: pertanto bisognerebbe proprio partire da questa prospettiva per tornare a rimettere in moto una forma più adeguata di pensiero, un pensiero capace di stare degnamente di fronte alla realtà così complessa della nostra contemporaneità.

Il potere finisce per abbagliare la vista e annebbiare la mente con la semplicità delle risposte che pretende di offrire e spesso lo fa accompagnandosi con manifestazioni vuote di sfarzo.

Il vangelo di questa domenica ci offre una via differente: ripartire a pensare dalle cose piccole e poco appariscenti, dalle cose marginali e secondarie, da quelle ultime e povere per iniziare a costruire una grandezza vera, quella che fa spazio tra i propri rami alla presenza di tutti gli uomini.

Il Regno di Dio è qualcosa di veramente grande e abitabile da tutti e non manifestazione sfarzosa appannaggio soltanto di qualcuno.

Abbiamo bisogno di immagini semplici, come quelle del vangelo, per fare pulizia nei nostri occhi e abituarci a leggere il mondo dalla giusta prospettiva di ciò che per crescere davvero deve essere accompagnato. Possiamo sentire la compagnia di Dio se impariamo a riconoscere nel piccolo e marginale tutta la potenzialità della vita che desidera e aspetta di potersi sviluppare. Questa è la saggezza del Vangelo: la saggezza di chi guarda al futuro con l’ottimismo del buon agricoltore e non con l’occhio del contadino che pensa solo alla possibilità di perdere il raccolto. Ecco, mi pare, che i summit dei così detti grandi della terra assomigliano sempre di più a momenti in cui, lo sfarzo del potere cerca di nascondere la paura di chi teme sempre e soltanto di perdere qualcosa: si può vivere così, senza speranza?

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