Scuola

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Con settembre ripartono le scuole e dopo poche settimane ci si rende conto che le polemiche che accompagnano questa riapertura sono sempre le stesse: a parole tutti, dal presidente delle Repubblica in giù, parlano della centralità del sistema educativo per la realtà del paese, tutti, nessuno escluso, ammettono la necessità di investimenti maggiori, in strutture, ma soprattutto in personale, tutti riconoscono che il corpo docenti andrebbe valorizzato anche attraverso un riconoscimento economico adeguato all’importanza del compito svolto. Potrei continuare aggiungendo molte altre osservazioni, ma basta osservare che, ogni anno, la dichiarazione di una rapida copertura di tutte le cattedre viene sistematicamente disattesa. Della scuola si parla molto e spesso a sproposito per qualche settimana e poi tutto torna nel dimenticatoio: ci si arrovella su come farla diventare migliore, su come renderla capace di formare la nuova classe dirigente, la si carica di tutte le aspettative proprie di una società che vorrebbe essere migliore ma che non sa prendersi le proprie responsabilità e, proprio per questo, finisce per scaricarle prevalentemente su una parte di sé. Più le cose non funzionano, più si incolpa la scuola di non funzionare.

Si parla e si discute, ma forse è facile perdere il cuore del problema, perdere di vista la realtà di chi dovrebbe essere tenuto al centro: i ragazzi e le ragazze che frequentano ogni giorno le nostre scuole.

Cosa vogliamo da loro? Spesso che diventino i più bravi, dimenticando che questa categoria è comunque necessariamente a numero chiuso. La questione del merito diventa una di quelle questioni fumose che si tira in ballo solo quando ci si rende conto che le cose sono davvero al limite.

La scuola non ha il compito di formare i più bravi, a questo semmai dovranno pensare istituzioni educative di grado superiore: la scuola ha il compito di mettere al centro i ragazzi e le ragazze che le sono affidati perché possano scoprire quello per cui sono portati, la realtà più adatta a loro perché possano sviluppare il modo di essere parte attiva in questa società. La scuola dovrebbe sempre ripartire dai più deboli e in difficoltà per cercare di indicare a tutti che nessuno è inutile.

Il vangelo della XXV domenica del tempo ordinario anno B (Mc 9,30-37), parla esplicitamente del fatto che Gesù insegna ai suoi discepoli e, proprio come un maestro antico, parla loro durante il cammino: mentre sono sulla strada li istruisce sulla sua missione, annunciando la sua morte e la sua risurrezione. La lezione è difficile, è di quelle complicate, di quelle che, per l’argomento trattato, nonostante la bravura del maestro, difficilmente entrano nella testa degli studenti alla prima spiegazione. Non c’è da stupirsi che i discepoli non capiscano: Gesù parla di una scuola di vita che non lascia indietro nessuno, di una prospettiva aperta sulla possibilità di donarsi pienamente, lasciando intravedere come questa sia la via che tutti possono percorrere se accettano di smarcarsi dalle discussioni inutili sul merito. I discepoli, però, dimostrano proprio quanto sia difficile pensare insieme a Gesù, pensare alla sua maniera, mettendosi alla sua scuola. Di fronte alla difficoltà di comprendere un modello alternativo ritornano alla logica umana del merito: chi è il più grande tra noi? Chi è il più importante? Quando siamo in confusione ci sembra normale rifugiarci nell’eterna inutile discussione su chi sia il più bravo: come se individuare i modi per stabilire una classifica delle abilità più utili sia la via sicura alla salvezza per l’intera società, o almeno per il nostro piccolo gruppo di influenza.

Proprio come di fronte a una scuola che sembra non funzionare ci si accontenta di trovare i modi per salvare almeno i migliori, così ragionano i discepoli e così ragioniamo tutti noi quando pensiamo che siano i nostri meriti a salvarci e a indicarci la via per il sicuro successo della vita.

L’immagine del bambino posto al centro e abbracciato da Gesù, mi pare che voglia suggerirci che dobbiamo ripartire da qui: rimetterci, come sempre, alla sua scuola. Credere che sia possibile rimettere al centro gli ultimi per imparare da loro come stare insieme a loro dietro all’unico maestro.

«Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Farsi ultimi e servitori di tutti pare essere una scuola molto dura, ma una scuola riorganizzata sulla base di questo principio rappresenterebbe sicuramente il tassello di una riforma sociale radicale e sorprendente. Probabilmente un’utopia, una semplice fantasia, ma per ogni credente il senso profondo del proprio discepolato.

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